Legge di bilancio, in arrivo la controriforma fiscale

by Alfonso Gianni * | 2 Gennaio 2019 10:15

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Il capo dello Stato, nel suo tradizionale messaggio di fine anno, è tornato, anche se brevemente sulla legge di bilancio che lui stesso alla fine ha promulgata.
Lo ha fatto probabilmente per due motivi.

Il primo è spiegare in qualche modo il perché di una firma su una legge approvata nel puro disprezzo di un Parlamento che l’ha votata sotto le forche caudine del ricorso alla fiducia senza neppure averla letta. Ha fatto quindi riferimento alla necessità di evitare la procedura di infrazione da parte della Ue, anche se in realtà la rapida promulgazione dell’alto colle evita solo l’esercizio provvisorio.

Il secondo motivo è che, proprio per le inaudite modalità con cui la legge non è stata discussa nelle commissioni e nelle aule parlamentari, Mattarella ha voluto richiamare l’attenzione di tutto il corpo politico del paese, seppure a «babbo morto», sulle conseguenze delle norme contenute in quel testo (tacendo però sui tagli all’editoria). In effetti nei 1143 commi che sostituiscono il primitivo articolo uno riscritto dal maxiemendamento governativo se ne trovano di tutti i colori, a riprova che i vecchi metodi di governo non sono cambiati, ma al contrario esaltati fino al parossismo dalla compagine pentaleghista.

In sostanza ognuno dei due contraenti il patto di governo, intesi come insieme dei due gruppi parlamentari, ha infilato nel provvedimento ciò che più serviva ad assicurarsi il sostegno del proprio spicchio di elettorato. L’esito sciagurato di questa legge non dipende solo, anche se in gran parte, dalla invasività delle euroburocrazie di Bruxelles che hanno scandagliato fino al minuto dettaglio il testo della legge, giungendo ad un vero esproprio della potestà sul bilancio da parte di governo e parlamento. In perfetta coerenza con quell’articolo 81 della Costituzione modificato dal governo Monti, senza una vera imposizione da parte di Bruxelles, che le successive maggioranze si sono ben guardate dal toccare. Il mercimonio lungamente protrattosi tra governo italiano e Ue ha avuto per oggetto l’andamento del deficit strutturale.

Questa è la ragione per cui a un certo punto l’unica soluzione cui aggrapparsi è sembrata quella di elevare da 0,3% all’1% la quota di privatizzazioni con conseguente discesa del rapporto debito-Pil. Il che comporta la vendita per 2 miliardi di euro di immobili dello Stato, perché i ricavi così ottenuti possono essere portati a riduzione del deficit e non solo del debito come è previsto per le dismissioni mobiliari, cioè dei pacchetti azionari. Ma resta il fatto che si tratterebbe di una entrata “una tantum” non in grado di ridurre il deficit strutturale. Lasciando, per ora, inalterata l’Iva – diventata una spada di Damocle sempre più pesante sugli anni futuri – il governo, per superare l’impasse, ha giocato la carta della netta riduzione delle previsioni sulla crescita, dall’1,5% all’1%.

Non si è trattato solo di un maquillage per ottenere maggiore credibilità – visti gli andamenti concreti della nostra economia -, ma del fatto che una minore crescita prevista del Pil aumenterebbe la componente «ciclica» del deficit, ovvero sul nuovo obiettivo del 2,04% peserebbero di più gli elementi congiunturali (come meno entrate fiscali e più ammortizzatori sociali dovuti a un Pil minore) modificando così il rapporto con la componente strutturale del deficit in modo di avvicinarsi di più ai desiderata di Bruxelles. La logica del fiscal compact, per quanto non ancora entrato nel corpus dei Trattati, l’ha fatta da padrone ed è evidente che senza la sua eliminazione anche maggioranze diverse si troveranno sotto schiaffo.

Ciò detto, l’invadenza di Bruxelles non può giustificare le responsabilità del governo italiano. Soprattutto perché, se la leggiamo bene, questa legge di bilancio non è solo un insieme di norme ad hoc, ma fa trasparire un disegno ben più ambizioso e letale, al di là dell’incremento della pressione fiscale complessiva.

Quello di portare avanti in modo strisciante ma deciso una integrale controriforma fiscale, come sappiamo un mantra del neoliberismo. Non si tratta solo della flat tax proposta a puntate. Anche se il primo assaggio è micidiale. Il regime forfettario potenziato dal 2019 scava un largo vallo tra lavoratori autonomi e dipendenti, tra i titolari di partita Iva tassati con l’Irpef e quelli che si avvantaggeranno della flat tax prevista nella legge di bilancio. I risultati di alcune simulazioni di fonte padronale indicano che un professionista con compensi annui di circa 64mila euro pagherà 10.200 euro di imposte in meno di un lavoratore dipendente con reddito simile e due figli a carico.

Ma non c’è solo la flat tax: l’accumularsi di altre sette nuove imposte sostitutive nella legge di bilancio mina dalle fondamenta l’Irpef. Il nostro sistema fiscale si compone sempre più di tributi su stipendi e pensioni e si basa sempre meno su una imposta generale e progressiva sui redditi delle persone fisiche. E’ un cambiamento di paradigma e di sistema che liquida sottotraccia il principio della progressività contenuto nell’articolo 53 della Costituzione. Se a ciò si aggiunge l’autonomia regionale voluta a gran voce dal Nord leghista, si ha il quadro completo di un nuovo attacco ai fondamenti della Repubblica

* Fonte: Alfonso Gianni, IL MANIFESTO[1]

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