Turchia alle urne, minaccia di annullamento per il voto delle città

by Dimitri Bettoni * | 31 Marzo 2019 9:43

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Il «Sultano atlantico» ha anche promesso il ritorno di Santa Sofia a moschea. Ma tace sulla crisi economica

La Turchia torna oggi al voto per elezioni amministrative che mai come oggi rischiano di contare poco o nulla. Non perché siano elezioni meno sentite, o perché gli argomenti, dal welfare alla pianificazione urbana, non siano centrali, nemmeno perché non rappresentino anche un momento di giudizio politico sull’operato del governo. Potrebbero contare poco o nulla perché l’esito delle urne potrebbe venire ribaltato già domani da una decisione del governo centrale: il sindaco eletto dai cittadini destituito, al suo posto un commissario scelto dalla presidenza della repubblica. È già accaduto 68 volte, negli ultimi due anni. I segnali perché accada ancora ci sono tutti.

LA CAMPAGNA elettorale è stata intensa, estenuante. Da un lato la coalizione del partito Akp di Erdogan, alleato con gli ultranazionalisti dell’Mhp di Devlet Bahceli. Dall’altra l’alleanza dell’opposizione del partito repubblicano Chp e del Iyi Parti, il Buon Partito di destra di Meral Aksener. L’outsider è, ancora una volta, il partito di sinistra Hdp.

Le due coalizioni principali si danno battaglia nelle grandi città: Smirne, Istanbul, Ankara. Se la prima appare destinata all’opposizione, le altre due rappresentano il grande punto interrogativo. Se resteranno in mano all’Akp, seguiranno quattro anni e mezzo di sodalizio tra il governo centrale e le amministrazioni locali. Se dovessero passare all’opposizione, gli scenari diventano imprevedibili.

LE TRE CITTÀ insieme contano circa ventiquattro milioni di abitanti, più di un quarto della popolazione totale. Sono i laboratori dove le politiche locali consolidano la base di consenso che porta al governo. Questa è stata la storia dell’Akp, il cui successo è tutt’oggi fondato su welfare esteso e servizi, prima della disastrosa deriva autoritaria dell’ultimo lustro. In queste stesse città, l’opposizione potrebbe ritrovare gli spazi per offrire alla gente alternative concrete alla guida dell’Akp. Così sarebbe, commissariamenti permettendo.

EPPURE le opposizioni ci credono. Nonostante lo strangolamento dei media, ormai megafono della presidenza, nonostante lo stato di diritto traballante, i processi politici, le operazioni di polizia, e l’onnipresente il rischio di brogli certificati dalle ultime esperienze.

SELAHATTIN DEMIRTAS, leader carismatico della sinistra, scrive dal carcere e invita ad «andare a votare, significa dire no al fascismo». E chiede alla base di fidarsi e seguire la strategia del partito. L’Hdp ha rinunciato a presentare propri candidati nelle regioni occidentali e invita a sostenere gli altri partiti di opposizione: l’obiettivo è non disperdere voti, giocarsi tutto, anche votando per un partito, quello repubblicano, che in passato ha rappresentato tanti lutti tra i curdi. «Non dimentichiamo il passato, ma il futuro è più importante» chiosa Demirtas. L’Hdp prova invece a riconquistare con propri candidati le città dell’est, roccaforte politica, prima che i commissariamenti decisi dal governo strappassero le amministrazioni ai sindaci eletti nel 2014.

SEMPRE CHE da lunedì la storia non si ripeta. Timore fondato, se prestiamo fede alle parole del ministro dell’interno Suleyman Soylu, secondo cui le opposizioni hanno candidato 325 persone vicine a organizzazioni terroristiche. Ancor più se ascoltiamo Erdogan, che promette la destituzione di quei sindaci che «inviano risorse dello stato a Qandil», ovvero al Pkk.

ERDOGAN ha guidato personalmente, da presidente della repubblica, la campagna elettorale in ogni città. 50 giorni di comizi ininterrotti, perché la costituzione che lui ha voluto glielo consente. Ha richiamato il popolo alla difesa della patria, “beka”, la sopravvivenza esistenziale e religiosa della nazione. Sa che è un tema che paga, così come quello religioso, dal massacro di musulmani in nuova Zelanda all’ultima sua promessa: il ritorno di Santa Sofia a moschea.

E SA CHE NON PUÒ parlare d’altro. L’altro è l’economia turca che traballa pericolosamente: la crescita è scesa dal +7,4% al +2,6% in un anno – di fatto la Turchia è in recessione tecnica – l’inflazione galoppa oltre il 20%, la disoccupazione tocca il 13,5%, quella giovanile il 24,9%. Per la leadership Akp i numeri sono il frutto del terrorismo economico di cui la Turchia è bersaglio. O forse il rigetto di un capitalismo globale che mal digerisce le ricette autoritarie e demagogiche del nazionalpopulismo di Erdogan.

Per tamponare il possibile travaso di voti dettato dalla stringente situazione economica, il governo ha sostenuto i propri candidati locali attraverso misure economiche di welfare dal sapore populista, sussidi all’allevamento, l’azzeramento della tassazione sulle nuove assunzioni, pacchi di tè distribuiti porta a porta e visite oculistiche gratuite ai comizi. Cerca di calmare i cittadini, promette che dopo le elezioni l’economia andrà meglio. Lo promise anche alle elezioni precedenti, e quelle prima ancora. Male che vada, dopotutto, potrà sempre destituire i sindaci.

* Fonte: Dimitri Bettoni , IL MANIFESTO[1]

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