by Roberto Ciccarelli * | 26 Aprile 2019 9:42
Il modello neoliberale va rovesciato: oggi gli algoritmi sono “intelligenti” grazie alla potenza della cooperazione con la nostra forza lavoro. Una nuova scena culturale critica avanza e coltiva nuove idee
Dopo anni di propaganda digitale a schermi unificati sulla fine del lavoro causata dalla digitalizzazione e dalla robotizzazione della produzione manifatturiera il rapporto sulle «Prospettive dell’occupazione/Il futuro del lavoro 2019» pubblicato ieri dall’Ocse rovescia le previsioni apocalittiche e conferma che l’impatto dell’automazione in Italia sarà poco più alto rispetto alla media: il 15,2% contro il 14%. Sia chiaro: anche in questa sede, i ricercatori dell’Ocse parlano di «rischio», non di «realtà». Una quota più ampia di lavori, pari al 35,5%, potrebbe invece registrare sostanziali cambiamenti nelle modalità e nella concezione. Questo lavoro sarà realizzato in maniera diversa. Non è una banalità, è la riscoperta della materialità del lavoro e delle sue condizioni sociali e giuridiche.
Una conquista dopo anni di narrazioni distopiche sulla rivoluzione delle macchine che hanno attribuito all’innovazione tecnologica la responsabilità della scomparsa dei posti di lavoro. Questa moderazione degli incensieri dell’«ideologia californiana»[1], il Verbo diffuso dalla Silicon Valley descritto in un folgorante saggio di Richard Barbrook e Andy Cameron già nel 1995, è stata adottata anche da altri pilastri neoliberali come un rapporto McKinsey del 2017 («Harnessing automation for a future that work») secondo il quale solo il 5% di tutte le professioni sarà sostituito integralmente dalle macchine o dal rapporto «The Future of Jobs 2018» del World Economic Forum secondo il quale robotica, algoritmi, automazione creeranno nei prossimi cinque anni 133 milioni di posti di lavoro, 58 in più di quanti ne distruggeranno. Lo stesso Ocse, in un precedente rapporto del 2016, aveva confermato l’impatto modesto dell’automazione in Europa dove il 9% dei lavori in media è a rischio di piena o parziale automazione: in Germania il 12%, in Italia allora era il 9% in Finlandia il 6%.
Ad eccezione di non pochi casi ormai, il mainstream e l’industria culturale in Italia che alimenta non ha ancora messo a fuoco a sufficienza questa divergenza delle previsioni rispetto alle magie tecnologiche diffuse dagli uffici marketing delle potenti Big Tech, anche al fine di apprezzare i loro titoli in borsa. Tuttavia, tra poco accadrà. E si aprirà una battaglia, culturale e politica, davvero interessante. Lo vediamo già nel rapporto Ocse dove si ammette che «nuovi lavori saranno creati», «sino ad ora l’occupazione complessiva è aumentata» e tuttavia «la transizione non sarà facile». Ecco, il problema è la «transizione».
Non va affrontata solo con il modello neoliberale del «cambiamento tecnologico orientato alle competenze», usato anche dall’Ocse, secondo il quale la tecnologia aumenta la domanda di lavoratori istruiti, permette di ottenere salari più elevati, anche se aumenta la disuguaglianza salariale. Qui si immagina un mercato dove gli umani concorrono con le macchine e finiscono per imitarle. Il modello va rovesciato. Oggi le macchine sono più intelligenti grazie all’enorme potenza sviluppata dalla cooperazione tra umani e algoritmi. Un approccio ispirato alla critica dell’economia politica digitale permette di riconoscere una verità tanto evidente, quanto invisibilizzata: l’intelligenza artificiale funziona nella misura in cui la forza lavoro sia dei lavoratori digitali che degli utenti delle piattaforme continuerà ad «allenare» gli algoritmi. Libri come quello di Antonio Casilli En attendant les robots[2] (Seuil, sarà tradotto in italiano l’anno prossimo) o la ricerca di giuristi del lavoro come Valerio De Stefano[3], tra gli altri, hanno dimostrato che dietro i nostri schermi esiste un lavoro digitale e che gli algoritmi vanno contrattati perché dipendono dalla nostra cooperazione, non dalla competizione.
L’ideologia californiana, invece, nasconde il lavoro necessario alla produzione di plusvalore e attribuisce tutto il potere alle macchine, e dunque ai loro proprietari, gli oligarchi delle piattaforme digitali. Al contrario la critica dell’economia politica digitale fa emergere la centralità della forza lavoro e la considera un soggetto di diritto nella produzione di una nuova «merce fittizia»: i dati estratti dai nostri comportamenti, azioni, relazioni e affetti. Non riconoscere la materialità di questa produzione, e la nostra centralità come forza lavoro, aumenta a dismisura la precarizzazione del lavoro e della vita indotta dalle piattaforme digitali e dal loro assetto proprietario. La fenomenologia è descritta anche nel rapporto Ocse di quest’anno, in particolare nel capitolo dove si parla della «zona grigia» dove le distinzioni tra lavoro autonomo e dipendente sfumano a causa di un uso opportunistico della classificazione dei lavoratori. È quello che accade ai riders, ad esempio. I ciclofattorini delle consegne a domicilio via «app» che il vicepremier Luigi Di Maio ha usato per un breve periodo evocando una nuova regolazione del lavoro a cui ha fatto seguito il silenzio. La partita è enormemente più grande, e investe la nostra intera esistenza.
Non incolpiamo i robot per i bassi salari, per le diseguaglianze raccapriccianti in cui viviamo. Il problema riguarda il rapporto tra la tecnologia e l’occupazione, ma soprattutto la politica e il potere.
* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO[4]
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