Chiamiamoli con il loro nome: omicidi sul lavoro. Intervista ad Alessandro Genovesi

Chiamiamoli con il loro nome: omicidi sul lavoro. Intervista ad Alessandro Genovesi

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La quotidiana strage sul lavoro in Italia produce una striscia di sangue soprattutto nel mondo delle costruzioni. Il settore anticiclico per eccellenza ha vissuto una crisi gravissima da cui sta uscendo solamente oggi. I cantieri sono diventati luoghi in cui i contratti e la sicurezza non sono la priorità, dominati da piccole imprese senza scrupoli in cui sono costretti ad accettare condizioni capestro anche sessantenni che vedono la pensione ancora come un miraggio. Ora i sindacati tentano di reagire rilanciando il tema della sicurezza e della legalità anche su scala europea, come dice Alessandro Genovesi, segretario generale della FILLEA-CGIL, il primo sindacato italiano delle costruzioni.

 

Rapporto Diritti Globali: Nell’ultimo anno in Italia sono tornati ad aumentare i morti sul lavoro. Buona parte sono concentrati nel settore dell’edilizia. Quali sono i motivi?

Alessandro Genovesi: La cosiddetta “ripresina” ha immediatamente fatto registrare una crescita di infortuni mortali nel nostro settore, con cause (caduta dall’alto, ribaltamento mezzi, colpi da oggetti sospesi) identiche a quelle di trenta anni fa. Per due ragioni soprattutto: da un lato, il modello di impresa e l’organizzazione del cantiere (anche in termini di presenza di più imprese nello stesso cantiere, più lavoratori con diversi contratti nazionali applicati, lavoratori subordinati accanto a lavoratori con partita IVA) risultano essere sempre più frammentate, quindi mal gestite. E un cantiere male organizzato è un cantiere pericoloso, perché accanto a lavorazioni di per sé a rischio, esposte a condizioni ambientali esterne, con ancora un significativo contributo fisico alla produzione, si aggiunge una scarsa prevenzione già a partire da come è organizzato l’ambiente di lavoro, dove prodotto e fabbrica di fatto coincidono: questa è la specificità dell’edilizia, dove per ogni intervento, per ogni manufatto, si costruisce la fabbrica intorno. In secondo luogo, perché l’età media degli addetti si è alzata e quindi i rischi di infortuni legati a problemi muscolo scheletrici o di abbassamento della velocità di risposta (i riflessi) o di equilibrio (legato a problemi di udito) sono aumentati.

 

RDG: Si tratta più di una mancanza di cultura della sicurezza che riguarda le imprese e a cascata i lavoratori o è anche colpa di leggi e norme arretrate?

AG: Le norme ci sono e sono tra le più avanzate, soprattutto sul piano della prevenzione. La questione è che i controlli sono pochi: per mancanza di risorse pubbliche e per un sistema divenuto, dopo la riforma dei servizi ispettivi del 2004, più consulenziale che di controllo verso le imprese. L’azienda edile ha peraltro una dimensione media di 2,5 addetti. Se sa che può ricevere una visita ogni sette anni e mezzo – questa la media tra aziende ispezionate e aziende operanti nel mercato –, quando ha una vita media inferiore ai cinque anni, forse occorre rafforzare il messaggio punitivo. Mi spiego meglio: come FILLEA-CGIL chiediamo sia introdotto il reato di omicidio sul lavoro, sul modello delle aggravanti per l’omicidio stradale. Non solo per un effetto “educativo”, ma anche perché così si fornirebbero strumenti a tutela dei familiari e delle vittime – compreso il sequestro dei beni personali – oggi di fatto preclusi. Non dimentichiamoci che la stragrande maggioranza degli incidenti, poi, si scopre che avviene o perché l’azienda non ha organizzato bene il cantiere, a partire dai ponteggi e dalla messa in sicurezza del pezzo lavorato (solaio, travi, eccetera), o perché, per risparmiare, non ha dotato i propri lavoratori della formazione necessaria o addirittura dei Dispositivi di Protezione Individuale.

Questo però rimanda anche alle nostre responsabilità come sindacato: contrattiamo l’organizzazione del lavoro in tutti i cantieri e negli appalti? Pretendiamo che tutte le imprese che fanno lavori edili applichino il Contratto nazionale dell’edilizia, che vuol dire formazione obbligatoria, maggiori oneri per la sicurezza, enti bilaterali preposti, RLST (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza di ambito Territoriale) che girano per il territorio, o invece quando permettiamo alle imprese di fare “shopping” contrattuale, scegliendo loro il Contratto nazionale multiservizi o metalmeccanico, che costano meno proprio perché risparmiano sulla sicurezza, anche noi abbiamo qualche responsabilità?

Fornisco un solo dato: nel 2016 a fronte di 18 milioni di euro spesi per le attività dei CPT (Comitato Paritetico Territoriale) e dei RLST, cioè di chi per contratto segue la sicurezza, sono state evitate sanzioni alle imprese per oltre 300 milioni di euro e sono stati messi in sicurezza oltre 15 mila cantieri. Basta? Certo che no, ma è la prova che dove si applicano i contratti collettivi giusti e dove il sindacato ci prova, qualche cosa succede, anche contro la volontà delle stesse imprese.

 

RGD: La questione è legata anche alla riforma Fornero delle pensioni, che costringe persone fino a 67 anni a lavorare nei cantieri. Come ovviare? L’APE sociale (l’Anticipo Pensionistico per i lavori usuranti e gravosi) è stato uno strumento sufficiente?

AG: L’APE sociale non ha funzionato perché si basava su soglie di accesso che fotografano un mondo lavorativo inesistente: avere 63 anni di età, avere almeno 36 anni di contributi e aver lavorato almeno gli ultimi 6 anni su 7. Noi dall’inizio abbiamo contestato questo mix. I 63 anni, perché si disconosce che molti edili hanno iniziato a lavorare a 15-16 anni e che già dopo i 60 tutti gli studi medici indipendenti ci dicono che le capacità di lavoro di un operaio edile sono ridotte di almeno il 50 per cento. Così com’è ridotta – tanto per essere chiari – anche l’aspettativa di vita: un edile mediamente vive tra i 5 e i 7 anni in meno della media nazionale. E questo per ovvi motivi: fa una delle attività più gravose e nocive del mondo per fatica, esposizione all’ambiente esterno, a materiali e sostanze particolari (colle, vernici, solventi, eccetera). Il criterio dei 36 anni di contributi – dei tre era ed è il più odioso – perché vuol dire non sapere che il 90 per cento degli operai edili – ma vale anche per altri lavori, pensiamo all’agricoltura – fa un lavoro discontinuo, con mesi di lavoro e mesi di non lavoro, cambiando aziende più volte nello stesso anno e con buchi previdenziali che poi, con la riforma degli ammortizzatori sociali e con la fine della disoccupazione speciale edile, non si potranno nemmeno più compensare in futuro. La carriera previdenziale media di un edile a 65 anni vede versati tra i 28 e i 31 anni di contributi. Per questo avevamo chiesto di portare a 30 anni di contributi la soglia per accedere, anche lasciando a 63 anni quella dell’età (su cui ho già detto). Infine, non andava bene il criterio di aver lavorato almeno gli ultimi 6 anni su 7 prima di poter chiedere l’APE sociale. Perché era come dire che non si facevano i conti con la crisi che dal 2010 ha visto più di 600 mila operai edili perdere il posto di lavoro. Su questo avevamo proposto di portare il criterio a 7 sugli ultimi 10, come è per i cosiddetti lavori usuranti. Questo lo abbiamo ottenuto con l’ultima legge finanziaria e, infatti, abbiamo allargato un po’ la platea. Se però non si tocca lo sbarramento dei 36 anni, l’APE sociale per gli edili si rivolgerà sempre a un numero esiguo.

Infine, inutile girarci intorno: occorre avere il coraggio di rimettere mano al sistema e alla legge Fornero e, consapevoli che i saldi di finanza pubblica esistono, fare una scelta: al di là della discussione sulle quote – la somma fra età e anni di contributi – da fissare a 95 o 100, o i soli 41 di contributi, poiché i lavori non sono tutti uguali bisogno avere il coraggio di dire che servono risposte – e uscite – flessibili e differenziate, senza aver paura di dire che se è giusto per un’edile andare in pensione prima perché morirà prima e perché ha fatto una vita dura, il giornalista o il professore universitario o il dipendente delle agenzie immobiliari può andarci dopo e pure di un po’.

 

RDG: Nel resto d’Europa e del mondo la situazione è diversa. Per quali ragioni?

AG: In diversi Paesi, per esempio, già per aprire un’azienda edile vi sono regole specifiche, percorsi, obblighi e formazione degli imprenditori. Già questa in Italia sarebbe una rivoluzione, perché vuol dire imprese qualificate, certe e note. Poi si sono mantenute forme di tutela sia previdenziale sia di ammortizzatori sociali specifiche per il settore; aspetti che le due riforme Fornero (quella sulle pensioni e quella sul mercato del lavoro) hanno da noi di fatto disconosciuto, mettendo tutti i lavori sullo stesso piano. Infine, vi è anche più attenzione da parte dei decisori politici, che hanno sempre ritenuto l’edilizia e la produzione di materiali settori strategici per l’innovazione.

Gran parte della riconversione verde in Germania e Francia sta passando proprio dalla rigenerazione urbana, dal retrofit energetico delle case e degli uffici, da infrastrutture sempre più intelligenti e interconnesse. Per fare ciò serve innovazione nella progettazione (il famoso uso del BIM, Building Information Modeling), nei materiali, nelle tecniche costruttive e quindi imprese e lavoratori qualificati che sono stati accompagnati in questi anni da politiche industriali dedicate.

Se oggi quelle economie rispondono meglio in termini di ripresa economica è anche perché hanno un settore delle costruzioni avanzato e moderno, con pochi incidenti e con un sistema di protezione che ne riconosce le specificità.

 

RGD: Il recente rinnovo del contratto nazionale degli edili in Italia affronta il tema? E come?

AG: Il recente rinnovo, sottoscritto con l’Associazione Nazionale Costruttori Edili (ANCE) e Coop (Cooperative), prova ad affrontare diversi di questi temi, partendo dal fatto che per noi il contratto è non solo redistribuzione, ma anche una parte di una più generale politica “industriale”. Per assurdo, lo scontro politico vero con le imprese è stato proprio su questa visione e sul fatto che il sindacato rivendica un ruolo non solo di “gestione”.

Da questo punto di vista il rilancio del sistema bilaterale, la centralità data alla lotta al lavoro nero e al dumping contrattuale, il percorso individuato per includere la partite IVA nel sistema di tutela e rappresentanza è un pezzo di qualificazione del sistema produttivo stesso. Dobbiamo cioè combattere lavoro nero, dumping contrattuale, utilizzo di partite IVA usate per fare concorrenza sleale, come precondizione per far crescere la qualità e il grado di innovazione e di investimenti in capitale delle imprese più serie.

Se non fermiamo la gara al “massimo ribasso” non avremmo mai imprese che investiranno su una migliore progettazione, sull’uso di nuovi materiali, sulla loro crescita dimensionale per aggredire condomini e grandi edifici da riconvertire o rigenerare, sulle nuove professionalità che servono per affrontare il mercato della messa in sicurezza antisismica del costruito o delle infrastrutture intelligenti. Con lo stesso spirito, abbiamo costituito due fondi nazionali, a carico delle imprese, per favorire, da un lato, prepensionamenti degli operai ma, dall’altro, anche l’ingresso di giovani nel settore.

Al netto di poche grandi aziende, per di più qualcuna di loro con importanti difficoltà, nei cantieri italiani, tra la crisi e la riforma delle pensioni, manca un’intera generazione di tecnici, operai specializzati, geometri, informatici. Quei ventenni-trentenni che sono poi il futuro del settore, anche se guardiamo a una nuova edilizia “più circolare”, più portata al recupero che non alla cementificazione.

L’obiettivo che ci diamo è quindi un’operazione di giustizia sociale, facendo scendere gli anziani dalle impalcature, ma anche un’operazione di qualità del sistema facendoci invece salire quei giovani che mediamente hanno anche più competenze e che sinora non hanno avuto occasioni.

 

RDG: Il mondo dell’edilizia unisce i piccoli cantieri e le grandi aziende che costruiscono infrastrutture gigantesche. Come tenere assieme queste due realtà apparentemente lontane?

AG: Anzitutto, augurandoci che il piano pluriennale noto come “Connettere l’Italia” vada avanti, perché ci servono grandi opere infrastrutturali che guardino all’Europa e al Mediterraneo e, soprattutto, che spostino merci sul ferro e abbattano i costi logistici, che tanto impediscono alle nostre aree interne e meridionali di competere. Per quanto riguarda il nostro Paese, poi, non dobbiamo mai dimenticarci che anche nelle cosiddette “grandi opere” convivono aziende significative e molte piccole e medie imprese, specializzate nei servizi e in alcune lavorazioni particolari, e che quindi il confine tra grande e piccola azienda nel cantiere tende poi a perdersi. Questo è già un fattore unificante perché l’organizzazione del cantiere, la formazione, la sicurezza, turni e ritmi di lavoro sono già temi comuni. Così come lo sono alcuni “colli di bottiglia” che queste imprese vivono: pensiamo al tema dell’accesso al credito, sempre più complesso, e alla comune battaglia per rendere cedibili alle banche gli incentivi per le ristrutturazioni o il risparmio energetico. O, ancora, la comune battaglia contro i “furbetti del cantierino” che, abusando per esempio del distacco internazionale, si sono presentati nell’area del cratere del terremoto del Centro Italia provando a mettere fuori mercato chi invece rispetta leggi e contratto.

Quel che cambia, inutile nasconderlo, è la difficoltà di difendere i lavoratori nella piccola impresa a differenza di quella più strutturata, dove puoi contare su delegati e relazioni industriali consolidate.

Da questo punto di vista, però, fondamentale diviene tutto il nostro sistema bilaterale, che proprio perché territoriale – come territoriale è il secondo livello di contrattazione – ricompone e dà tutele in quanto lavoratore iscritto alla Cassa edile; quindi indipendentemente dall’azienda e dalle aziende per cui ha lavorato nell’anno. E allora le ferie, la tredicesima, l’anzianità professionale sono pagate dalla Cassa edile e il sindacato, oltre che nella specifica realtà di quella piccola impresa, diviene interlocutore anche per difendere quei diritti che abbiamo “costruito fuori” proprio per ricomporre ciò che discontinuità (si cambia spesso azienda e vi sono periodi di non lavoro) e dimensione di impresa (aziende piccole e piccolissime) rendono difficile garantire dentro.

Le nostre Casse edili sono state conquistate con scioperi e scontri di piazza, contando anche da Palermo a Firenze compagni uccisi in quelle vertenze. Si tratta di una forza e di un’esperienza che sono peraltro al centro dei nostri scambi con i sindacati dell’Est Europa, che stanno provando a costruire un sistema di tutela simile al nostro; pur con qualche nostra contraddizione, tutta italica, essendo attive in quei Paesi importanti aziende italiane, che qui da noi operano in modo corretto, mentre lì assai meno.

 

RDG: Proprio a questi riguardi, quale interlocuzione avete con i sindacati degli altri Paesi? C’è un approccio globale alle tematiche comuni al mondo delle costruzioni?

AG: In Romania stiamo collaborando per far in modo che le nostre aziende vi riconoscano non solo il sindacato ma anche un sistema di tutele più vicino al nostro, anche con scambi e con nostri compagni (magari di origine rumena) che vanno lì per qualche mese a “insegnare” il mestiere. È diverso il rapporto con i Paesi storici dell’Europa a sei, in particolare con gli amici tedeschi, francesi e belgi, dove forte è la tradizione sindacale e significativa è anche la presenza di imprese italiane vincitrici di importanti commesse pubbliche. Qui lo sforzo, oltre che di assistenza reciproca, è più concentrato sulla capacità di definire comuni strategie rivendicative in sede comunitaria.

Oltre che sulla vertenzialità, in particolare sul fenomeno del distacco internazionale, è recente l’ottimo lavoro fatto da FILLEA-CGIL e Fondazione Di Vittorio con i sindacati di Spagna, di altri Paesi e fondazioni tedesche, all’interno del progetto “BROAD – Building a Green Social Dialogue” promosso dall’Unione Europea.

C’è un fenomeno da noi che sempre di più sta diventando una specie di “caporalato 4.0”, con lavoratori assunti da imprese dell’Est, ma non solo, distaccati poi presso altre aziende che operano in altri Paesi, che poi a loro volta distaccano questi lavoratori presso cantieri terzi. Con il risultato che quei lavoratori hanno meno diritti e tutele e spesso non sanno neanche rispondere alla domanda «per chi lavori?»; vi è una concorrenza sleale contro le aziende più serie, vi possono essere fenomeni di riciclaggio e arruolamento che rimandano alla grande criminalità organizzata.

Temi nuovi ma dal sapore antico, con imprese che ragionano sempre più su una dimensione globale a cui dobbiamo saper rispondere anche noi, come sindacato, cedendo un po’ della nostra sovranità e rafforzando i nostri sindacati europei ed internazionali.

 

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Alessandro Genovesi: nato nel 1977, ha iniziato la sua esperienza nell’associazionismo studentesco per poi proseguire parallelamente nel sindacato e nella politica. A vent’anni, l’incontro con la CGIL nazionale, dove collabora con il Dipartimento per le Politiche sociali; a ventuno l’elezione nella Direzione nazionale dei DS come vice responsabile del Dipartimento Innovazione tecnologica e TLC; successivamente componente dell’esecutivo nazionale della sinistra DS. Giornalista, ha al suo attivo varie collaborazioni ed è autore di alcuni saggi sulla politica e la sinistra, tra cui Senza aggettivo – Sinistra, movimenti, democrazia. Pace, lavoro, beni comuni. Sentieri della nuova politica (con Pietro Folena e Paolo Nerozzi, Dalai Editore, 2005). Nel 2003 la scelta di dedicarsi esclusivamente all’attività sindacale: dapprima funzionario nel Dipartimento Politiche attive del lavoro della CGIL nazionale, poi nel 2006 entra nella segreteria nazionale del Sindacato Lavoratori della Comunicazione (SLC-CGIL) con la delega alle telecomunicazioni, dove segue la grande campagna di stabilizzazione dei lavoratori precari dei call center e le pesanti ristrutturazioni di Telecom Italia e delle altre grandi aziende del settore. Nel 2011 viene eletto segretario generale della CGIL Basilicata, siglando – tra l’altro – il primo contratto di sito per le attività estrattive che introduce la clausola sociale nei cambi di appalto ENI e costituendo l’Osservatorio territorio ambientale. Terminata la propria esperienza in Basilicata, nel marzo 2015 torna a Roma per approdare alla segreteria nazionale della FILLEA-CGIL con la delega all’organizzazione. Nel luglio 2015 è eletto segretario generale della FILLEA-CGIL, il primo sindacato italiano delle costruzioni.

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