Il governo vara il Documento di economia e finanza. C’era una volta un «anno bellissimo»

by Roberto Ciccarelli * | 10 Aprile 2019 9:59

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Faceva caldo, tra luglio e agosto dell’anno scorso, e qualcuno vaticinò una crescita del tre per cento. Nell’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) del 2018 un vecchio saggio la dimezzò all’1,5%. Tra ottobre e novembre, al tempo dello scontro con la Commissione Ue, il valzer dei decimali si fermò a un’ancora incredibile 1%. Tra gennaio a ieri il governo è caduto in un burrone. In attesa della «ripresa incredibile» annunciata dal presidente del Consiglio Conte nel secondo semestre del 2019, nel Def 2019 ieri il governo ha fermato il valzer dei decimali a una stima tendenziale dello 0,1% del Pil. Ma si può scommettere che tra sei mesi, al momento della nuova legge di bilancio, e sempre che questo governo sarà ancora in carica, la percentuale potrà essere ancora inferiore. Il Def è, di solito, il pozzo dei desideri di ogni esecutivo, e ancor più di questo disperatamente proteso nella battaglia all’ultimo voto in vista delle elezioni europee del 26 maggio.

I PENTALEGHISTI non hanno visto la crisi, l’hanno negata fino all’ultimo. Davanti alla possibilità di un segno negativo, indice della recessione di un’economia in affanno strutturale, hanno provato a curare il febbrone con l’aspirina. Nelle bozze del testo è confermato l’impatto irrisorio di misure, dai titoli inutilmente roboanti, quali «sblocca cantieri» (ribattezzata dalla Cgil «sblocca porcate») o «decreto crescita». Approvati entrambi «salvo intese», secondo il governo questi decreti produrranno lo 0,1%, già calcolato nella stima programmatica del +0,2%. In effetti è una spinta spettacolare per il secondo semestre dei miracoli.

L’«ANNO BELLISSIMO» profetizzato da Conte, in un periodo di entusiasmi estetici, secondo il governo da lui stesso presieduto, la disoccupazione salirà quest’anno all’11% dal 10,6% del 2018, il debito crescerà al 132,7%, un deficit stimato al 2,4% quest’anno contro il giochino contabile del 2,04% approvato nella legge di bilancio a dicembre. Attenzione: la nuova stima del 2,4% non ha più lo stesso valore di quello festeggiato dagli improvvidi ministri cinque stelle dal balcone di Palazzo Chigi nella magica serata del 27 settembre 2018. A quel tempo, nel teatro delle ombre populiste, la crescita era data tra l’1 e l’1,5%. Ora è vicina allo zero, il paese è in stagnazione economica. Un altro mondo.

SI VANNO INOLTRE precisando anche le stime dell’occupazione prodotta, a suon di incentivi alle imprese modello Jobs Act, dal cosiddetto «reddito di cittadinanza»: 260mila occupati da oggi al 2022, si legge in una prima bozza del Programma nazionale riforme (Pnr) allegato al Def. Sessantacinquemila all’anno. Una cifra modestissima per un provvedimento mal pensato e ancora tutto da applicare.

INIZIANO I TAGLI. A partire dalla conferma della clausola di salvaguardia stabilita dall’ultima Legge di Bilancio: oltre 1 miliardo in meno alle imprese; 300 milioni in meno per la sicurezza della mobilità locale; 150 milioni in meno per la difesa e sicurezza del territorio; 100 milioni in meno per scuola, università e ricerca; 40 milioni in meno per le politiche sociali. Non solo. Per assicurare il consolidamento dei conti il governo rilancia una «spending review» e la rimodulazione di oltre 450 agevolazioni fiscali («tax expenditures») per sostenere il calo del deficit. L’operazione è disperata, sono stati in molti a cimentarsi con esiti fallimentari. Oltre tutto è un tema elettoralmente devastante, in un paese con una tassazione mostruosa che ha trovato questa via per garantire un welfare indiretto. All’esito di questa impresa è sospeso, al momento, il finanziamento della battaglia elettorale della Lega sulla «Flat Tax. In realtà si tratta di un regime d’imposta sulle persone fisiche a due aliquote del 15 e 20 per cento che salvaguarderà le spese fiscali destinate al sostegno della famiglia e delle persone con disabilità.

LE CONSEGUENZE del populismo liberista della Lega possono essere devastanti: secondo la Cgil un’aliquota del 15% uguale per tutti, basata sui redditi dei nuclei familiari e non più personali, da zero a 50 mila euro comporterebbe effetti irrazionalmente distribuiti e benefici concentrati soprattutto sui redditi più alti e non su quelli medio-bassi. Infine comporterebbe uno svantaggio notevole anche per i secondi percettori di reddito, in gran parte donne. Per il Codacons i 12-15 miliardi di euro necessari per finanziare la «Flat tax» costerebbero 577 euro a famiglia in più all’anno. Volevano semplificare le tasse, negando ogni progressività, rischiano di creare un’altra tassa per il «ceto medio» che Luigi Di Maio dice di volere difendere.

Per finanziare questa operazione si prevede un’infornata di privatizzazioni e dismissioni immobiliari, varianti e rigenerazioni del patrimonio pubblico . Il governo favoleggia su un’ulteriore cessione immobili da 1,25 miliardi tra il 2019 e il 2021. In una situazione economicamente compromessa è poco credibile. L’anno bellissimo si preannuncia terribile.

* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO[1]

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