La crescita delle povertà alimenta i populismi

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Dal 16° RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI – Un mondo alla rovescia

2° Capitolo – POLITICHE SOCIALI

Il Contesto – LA SINTESI

Dopo dieci anni, l’onda lunga della grande crisi del 2008 non ha visto una vera inversione di tendenza. E dieci anni sono un periodo lungo, sufficiente a incardinare sentimenti di insicurezza e farne una stabile ragione di rancore verso la politica e verso gruppi sociali via via eletti a capri espiatori.

La flessione positiva delle povertà nel 2016 (dato più recente diffuso da Eurostat) è da “zero virgola”, per la precisione lo 0,3% sul 2015, un milione di poveri in meno: gli obiettivi della strategia Europe 2020 ne prevedono 20 in meno, traguardo evidentemente irraggiungibile. Gli europei a rischio povertà sono 118 milioni, il 23,5% della popolazione comunitaria. Sotto il profilo dell’impoverimento, tuttavia, l’Europa non è una sola: lo scarto tra il Paese più povero (Bulgaria) e quello più agiato (Repubblica Ceca) è di 31,1 punti, da 40,4% a 13,3%. Il gruppo dei più poveri, tra 40,4% e 30%, include Paesi di tutte le aree geografiche (Bulgaria, Romania, Grecia, Lituania, Italia), quello dei meno poveri, sotto il 18%, Austria, Danimarca, Olanda, Finlandia e appunto Repubblica Ceca. Quanto alla deprivazione materiale, la subisce il 7,5% degli europei, con un lieve calo rispetto al 2015, -0,6%, con una forbice dal 2% del Lussemburgo al 20% della Grecia, che ancora paga la lunga onda della crisi e dei Memorandum imposti dalla cosiddetta Troika. Tra i Paesi con il trend peggiore, che hanno visto aumentare la deprivazione, Romania (+1,1%) e Italia (+0,6%).

Infine, il lavoro: il 10% della popolazione europea è sotto la soglia del 20% del lavoro che potenzialmente potrebbe prestare, che significa che è precario o lavora saltuariamente pochi mesi l’anno. Irlanda, Grecia, Spagna sono i Paesi con più situazioni di lavoro a bassa intensità, mentre tra il 2015 e il 2016, pur posizionandosi su valori inferiori, hanno tuttavia peggiorato la loro situazione Grecia (+0,6%), Italia (+1,1), Lituania (+1%) e Lussemburgo (+0,9). Tra i migranti in Europa ogni 10 persone 4 sono a rischio povertà. E il lavoro non protegge gli immigrati dalla povertà: tra loro, i working poor sono il 20% a fronte del 9% degli europei. Per quanto riguarda la povertà minorile, a incidere è la posizione occupazionale dei genitori: essere in una famiglia dove il lavoro è precario e saltuario porta i giovani europei a essere poveri nell’8,7% dei casi, mentre i giovani stranieri lo sono per il 20% in media, arrivano al 26,9% se sono extra-UE.

Lo stato dell’arte del programma globale ONU Millennium Sustainable Development Goals 2030 (SDGs), tra i cui obiettivi vi sono sradicare le povertà estreme entro il 2030, ridurre le disuguaglianze, aumentare l’istruzione e garantire il lavoro di qualità, segnala un trend positivo riguardo le povertà estreme nel mondo: le famiglie di lavoratori che vivono con meno di 1,9 dollari al giorno sono passate negli ultimi 20 anni dal 26% al 9%, e sarebbero diminuite del 60%, dal 1990 al 2013, le persone in povertà estrema, attestandosi sull’11% della popolazione, 783 milioni di persone. Quanto alla fame, la denutrizione è invece salita tra il 2015 e il 2016, coinvolgendo l’11% degli abitanti della terra, 815 milioni, 151 milioni di bambini under5 sono sottopeso.

Povertà in Italia, un trend inarrestabile. Dati inesorabili sulle povertà italiane: quelli relativi al 2017 segnalano un’impennata. Le statistiche mostrano un Paese più povero ma soprattutto con povertà che hanno assunto un carattere strutturale. L’Italia ha peggiorato la sua situazione, passando, tra 2015 e 2016, dal 28,7 al 30% di persone a rischio povertà, insieme a Romania e Lussemburgo il Paese con i dati maggiormente peggiorati. I dati per l’anno 2017 parlano di una crescita dei poveri assoluti, che si attestano su 1.778.000 famiglie (il 6,9% di tutti i nuclei; prima della crisi del 2008 erano il 3,9%), 5.058.000 individui (l’8,4%); rispetto all’anno 2016. Se c’è chi peggiora sempre di più la propria condizione, ma il PIL aumenta, vuol dire che c’è chi la migliora, e anche di molto. Lo dice anche la Banca d’Italia: i più ricchi sono sempre più ricchi.

Povertà educativa in Italia. Un minore su cinque in Italia è povero sotto il profilo del reddito, secondo gli indicatori europei e uno su dieci è in povertà assoluta secondo quelli dell’ISTAT. Ma non di solo reddito sono poveri i bambini italiani. Secondo un’indagine di Save the Children, c’è una drammatica povertà educativa che rischia di concorrere a creare nuove povertà adulte e a impedire che un bambino che nasce in una famiglia povera possa pensare di avere domani una condizione diversa. La povertà educativa, insomma, sommata a quella economica, disegna un destino. Nello scenario europeo, l’Italia occupa una posizione molto arretrata quanto a superamento della povertà educativa: i ragazzi e le ragazze svantaggiati socialmente che superano il gap educativo sono il 20%, peggio di noi solo alcuni Paesi dell’Est e la Grecia, mentre Paesi come Olanda, Germania, Francia, Spagna, Portogallo o Regno Unito si collocano tra il 42 e il 24%.

Tra gli anziani, il 6,7 over65 che vivono soli su 100 sono poveri (erano 5,2), e lo è il 9,8% delle famiglie con un anziano, erano il 7,1% nel 2016. La variabile geografica incide sulla povertà: più di un quarto della popolazione del Sud versa in condizioni di povertà, grave o relativa, e nel caso di quella relativa in un solo anno registra l’aumento eccezionale di +5%. Tra gli occupati, gli operai meridionali per un terzo sono poveri, il 32,2%, e in un anno hanno accumulato 5 punti percentuali.

Il Reddito di inclusione alla prova dei fatti. Del REI hanno beneficiato da gennaio a giugno 2018 267.000 nuclei familiari per un totale di 841.000 persone; se si aggiungono 44.000 famiglie che percepiscono misure diverse non ancora incluse nel REI si arriva a quota 331 mila. Il 70% va alle regioni del Sud, soprattutto Sicilia e Campania che arrivano a coprire il 50% del totale, poi Calabria, Lazio, Lombardia e Puglia coprono un altro 28%. In media, il REI raggiunge 139 italiani su 10.000, dato che arriva a 416 in Sicilia e cala a 15 in Friuli-Venezia Giulia. I nuclei con minori sono 168.580, il 63% del totale, quelli con persone disabili 48.680. L’importo medio è di 308 euro a famiglia. È stata raggiunta una quota di poco più del 18% del totale delle famiglie in povertà assoluta (quelle in povertà relativa non sono contemplate dai dati ISEE necessari all’accesso), con l’ampliamento della platea dei beneficiari prevista dal 1° luglio 2018, secondo proiezioni INPS, si arriverebbe a 525 mila nuclei, poco meno del 30% di poveri assoluti: strada da fare ce ne sarebbe ancora per avvicinarsi a una misura anti-povertà almeno in parte significativa. Se dal luglio 2018 l’investimento è di 1,8 miliardi di euro, per coprire tutte le famiglie povere assolute servirebbero, per l’INPS, ancora 6,2 miliardi. Intanto, a ridosso della discussione del DEF 2018 si dipana il dibattito attorno alle forme di sostegno al reddito, a partire dal punto di programma del M5S, il reddito di cittadinanza. La proposta è quella di una integrazione al reddito per non essere al di sotto della soglia di povertà. Secondo quando discusso nel Consiglio dei ministri a fine settembre 2018, non a tutti i poveri e pensionati andrà la cifra dichiarata nella propaganda politica di 780 euro, bensì ciò che manca per arrivare a una simile cifra, in media all’incirca 480 euro. Saranno poi esclusi i poveri non autoctoni. Non reddito di cittadinanza, dunque, ma sostegno al reddito dei più poveri, in una logica prevalente di workfare, ovvero di beneficio condizionato e non universale.

La condizione anziana. La tutela dei più anziani fino a oggi rappresentata, nei Paesi europei, dai sistemi previdenziali appare sotto attacco, sia delle politiche pensionistiche adottate dagli Stati per alleggerire la loro incidenza sui bilanci pubblici, sia dai trend demografici in atto, ed è uno scenario che sfida le future politiche sociali ed economiche. Secondo l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (European Union Agency for Fundamental Rights, FRA) discriminazioni basate sull’età anziana avvengono nei campi del lavoro, dell’assistenza, della cura e della partecipazione sociale. Secondo i dati raccolti da FRA, nella UE almeno 4 milioni di over60 hanno subito abusi e maltrattamenti fisici, 29 milioni abusi psicologici, 6 milioni sono stati truffati e un milione è stato abusato sessualmente. Per le donne, spesso si ha un effetto “cumulo” di discriminazioni o situazioni di svantaggio sommatesi nell’arco della vita, per esempio nel lavoro, arrivando a gap di genere nelle pensioni e dunque nel reddito e nella condizione sociale. Inoltre, il futuro previsto dalla Commissione Europea vede un aumento generalizzato nella UE dell’età pensionabile. Il rapporto tra over65 e popolazione attiva in fascia 15-64 anni passerà dall’attuale 29,6 al 51,2 (+21,6), con due persone attive per ogni pensionato contro l’attuale 3,3; nel 2070 i costi complessivi per la vecchiaia (includendo pensioni, costi per la sanità, spese per le malattie croniche) cresceranno dell’1,7%, con incrementi che variano di Paese in Paese, per esempio i costi sono destinati a decrescere in Italia, Grecia, Francia e altri Paesi, a crescere fino a +3% in Portogallo e Danimarca e molti Paesi dell’Est, e a ben più del 3% in Austria, Germania, Regno Unito e altri. Il rapporto tra pensione media e salario medio è destinato a scendere del 10,6% in tutta la UE nel 2070.

In Italia si vive a lungo: secondo i dati forniti dall’ISTAT nel 2016 la speranza di vita alla nascita in Italia è di 82,8 anni, e aumenta di oltre un anno dal 2010 (+1,3 per gli uomini e +0,7 per le donne). L’Italia è longeva, dunque, in Europa, la batte solo la Spagna (83 anni), mentre la media UE28 è di 80,6 anni. Tuttavia, per la qualità della vita degli anziani gli italiani sono in svantaggio: siamo infatti sotto la media europea quando si considera la sopravvivenza senza alcuna limitazione nelle attività. Gli uomini hanno una speranza di “buona vita” a 65 anni di 7,8 anni (media UE 9,4) e le donne di 7,5 (media UE anche qui di 9,4 anni). Tra Nord e Sud c’è una differenza di aspettativa di “buona vita” alla nascita di 4 anni, con migliori prospettive per le province autonome di Trento e Bolzano e l’Emilia-Romagna, e peggiori per Basilicata, Calabria e Sardegna; la speranza di vita senza limitazioni a 65 anni ha un simile andamento, al Nord sono 11 anni, al Centro 10 e nel Mezzogiorno 8, Infine, la tradizionale minor povertà degli over65 o dei nuclei dove uno o più over65 portano il loro reddito da pensione a sostegno dei famigliari, sta mostrando segni di inversione di tendenza. Il tradizionale “welfare di famiglia”, che negli anziani ha sempre avuto un suo punto di forza, è messo alla prova, e non sembra bastare più a colmare i vuoti delle politiche pubbliche. Ma gli anziani sono anche una risorsa per la collettività: l’Auser, l’associazione italiana per l’invecchiamento attivo, raccoglie 295.724 soci (166.605 sono donne) e 49.340 volontari attivi (20.577 donne) che hanno offerto 7.499.151 ore di volontariato in un anno in Italia in attività che coinvolgono 626.793 persone; nel volontariato internazionale, 761 persone e 32.769 ore erogate.

La salute diseguale. L’Italia è un paese diseguale per quanto attiene la salute. Vi sono disuguaglianze importanti rispetto a due tra i più significativi indicatori, l’aspettativa di vita e la mortalità. Fanno la differenza il titolo di studio, l’area geografica, l’età e il genere, variamente correlati: se si è maschi, 30enni, laureati si ha una aspettativa di vita di tre anni superiore a chi, a pari condizioni, ha un titolo di scuola dell’obbligo; se si è donna nella stessa situazione il vantaggio scende a un anno e mezzo. E se avere una laurea è vantaggioso sia al Sud che al Nord, lo è in modo diverso. Il livello di istruzione incide anche sul tasso di mortalità: gli uomini con titolo di studio basso hanno un rischio di morte in generale di +34% rispetto a chi ha un livello di istruzione superiore (+22% per le donne). Le diseguaglianze e gli effetti sulla salute e aspettativa di vita non sono solo tra Mezzogiorno e Nord Italia. Ad esempio, uno studio sulla città di Torino ha registrato differenze significative nel raggio di qualche chilometro: «A Torino chi sale sul tram che attraversa la città dalla collina alto-borghese all’estremo est per andare nella barriera operaia di Vallette all’estremo nord-ovest vede salire dei passeggeri che perdono mezzo anno di speranza di vita ogni chilometro che percorre: più di quattro anni di aspettativa di vita separano i benestanti della collina dagli abitanti degli isolati più poveri del quartiere Vallette» (Costa, 2017).

Longevità e sistema sanitario. Nel 2050 saranno 20 milioni gli over65 italiani e 4 milioni gli over 85, nel 2030 8 milioni tra gli over65 saranno affetti da almeno una malattia cronica grave e 5 milioni saranno disabili. Secondo gli Stati generali dell’Assistenza a lungo termine, l’Italia oggi è ampiamente al di sotto del fabbisogno: nella graduatoria europea sull’investimento in cure a lungo temine risulta stanziare a questo scopo il 10% della spesa sanitaria (15 miliardi, ma 3,5 sono pagati dalle famiglie), a fronte del 20-25% di Paesi come Germania, Regno Unito, Francia, Svezia. La quota degli over65 che fruisce di una Assistenza Domiciliare è in media il 3,1%, con una geografia regionale molto differenziata. Sono istituzionalizzati nelle RSA in media il 2,1%, con un massimo percentuale in Trentino (9,6%), un minimo in Campania (0,1%). È la famiglia o la rete sociale a svolgere la gran parte dell’assistenza.

Il lento omicidio del Servizio Sanitario Nazionale. Sono diminuiti gli accessi alle visite specialistiche e agli esami clinici, che sono stabili solo per i ceti ricchi e in calo per quelli meno. Questo segna una doppia ingiustizia “di classe”: i più poveri accedono di meno alle prestazioni sanitarie e, insieme, sono in media più bisognosi di cure, mentre i più ricchi vi accedono di più essendo in media più in salute. La differenza qui la fanno ticket e superticket introdotti dal Servizio Sanitario Nazionale, che incidono soprattutto sulle fasce impoverite o relativamente povere, perché i più poveri sono (almeno) protetti dall’esenzione. Le liste d’attesa – con conseguenti effetti negativi e anche diversione verso il privato – le pagano soprattutto i più poveri, che non possono pagarsi le prestazioni private. Il tutto a riprova che far pagare troppo le prestazioni del SSN crea danno alla salute e produce ingiustizia sociale. Tant’è che il 7% degli italiani (dati 2015) ha dovuto rinunciare ad almeno una prestazione sanitaria, dato in crescita dal 2012, superiore a quelli di Paesi con sistemi non lontano dal nostro, Regno Unito (4%) e Spagna (5%). Con una variante geografica, perché al Nord siamo in linea con l’Europa, al Sud c’è al contrario dal 2013 un aumento costante delle rinunce e soprattutto tra i più disagiati: rinuncia ad almeno una cura il 12% degli adulti con licenza media, ma il 7% dei laureati; e tra chi rinuncia il motivo è quello economico per il 69% dei primi e per il 34% dei secondi. A fronte di questo scenario, la spesa privata aumenta. Secondo il Censis, sono 150 milioni le prestazioni sanitarie annue al di fuori del SSN per un ammontare di 40 miliardi di euro (ma l’ISTAT parla di 37), è un fenomeno in crescita (+9,6% tra 2013 e 2017), l’ammontare pro capite sarebbe di 655 euro, che vanno soprattutto in farmaci, visite specialistiche ed esami, cure dentistiche e protesi. Altre fonti segnalano che nel 2016 la spesa sanitaria totale è stata di 157,6 miliardi di euro, di cui 112 di spesa pubblica e quasi 45,5 di spesa privata. Non c’è dubbio che quel terzo di spesa – per lo più out of pocket e in minor parte intermediata, cioè a favore di soggetti privati – è un segnale di chiara crisi del SSN, e rappresenta un limite all’esigibilità di un diritto costituzionale.

Il dopo crisi e le politiche di austerity continuano a porre in agenda il tema della sostenibilità del SSN. È dunque sempre all’ordine del giorno – e in linea con il mainstreaming liberista – il tema del cosiddetto “secondo pilastro”, quello dell’ingresso nel sistema sanitario dei fondi privati e delle assicurazioni. La partita non è da poco, perché il sistema dei fondi e delle assicurazioni private qualora non si accontentasse di essere gregario e di mera integrazione al pilastro portante del SSN, avrebbe a sua disposizione un tesoro valutato in 35 miliardi di spesa sanitaria privata da intermediare, un tesoro che fa indubbiamente gola e che finirebbe per acuire le forti disuguaglianze sociali già presenti nel settore della salute.

 

* Fonte: 16° Rapporto sui diritti globali

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