La società della trasparenza non è sinonimo di libertà

by Benedetto Vecchi * | 11 Giugno 2019 11:12

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La consegna di Julian Assange da parte dell’ambasciata ecuadoriana alle autorità di polizia britanniche segna una svolta nella vicenda del fondatore di WikiLeaks, che potrebbe essere estradato negli Stati Uniti e finire dietro le sbarre di una prigione con i suoi carcerieri che gettano via, teoricamente, le chiavi della sua cella.

Assange ha sulla testa accuse pesanti, dallo spionaggio all’attentato alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In realtà ha fatto ciò che ogni giornalista dovrebbe fare, diffondere notizie rilevanti per l’opinione pubblica, sia che si tratti del comportamento di uno Stato che di una impresa, di un singolo o di un gruppo organizzato.

WikiLeaks, nel corso del tempo, ha diffuso notizie su corruzione, violazione delle leggi e comportamenti illeciti di militari impegnati in azioni di guerra. Ha cioè dato spazio sul proprio sito Internet – ma non solo, dato che ha operato anche con media cartacei – a materiali ufficiali ma segretati di istituzioni o imprese, avvalendosi della collaborazione di uomini e donne che vengono chiamati whistleblowers.

Per questa attività informativa Assange e WikiLeaks dovrebbero essere ringraziati, ma non sempre le autorità statunitensi, inglesi, australiane, ma sicuramente anche di altri paesi, compresa l’Italia, hanno letto l’ormai classico Storia e critica dell’opinione pubblica di Jürgen Habermas, dove il filosofo tedesco sosteneva che compito dei media era di informare un pubblico secondo alcune regole – la pertinenza e la verifica delle informazioni diffuse – ma anche di sottoporre a controllo dell’opinione pubblica l’operato del sovrano di turno.

Questo ha fatto Julian Assange e WikiLeaks. E per questo andrebbe liberato. Detto questo, l’esito parziale di questa vicenda richiede una analisi disincantata, spregiudicata dei pregi e dei limiti dell’operato di WikiLeaks.

Il pregio dell’attività di WikiLeaks è di aver resi pubblici fatti, decisioni sottoposti al segreto industriale o al segreto di Stato, anche quando questi fatti riguardavano l’uccisione di civili da parte di militari (il caso di Chelsea Manning), corruzione di funzionari pubblici da parte di imprese o la documentazione di una attività sistematica di controllo delle comunicazioni private come emerge dai materiali forniti da Edward Snowden.

Forte la convinzione, di matrice liberale e illuministica, da parte di Assange che la massima trasparenza sia sinonimo di una opinione pubblica informatica e che può quindi discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto.

La società della trasparenza, tuttavia, non è sinonimo di libertà. Le tecnologie del controllo possono essere infatti più efficaci proprio in un regime di massima trasparenza, dove ogni informazione diviene eguale ad un’altra, alimentando un rumore di fondo che impedisce di stabilire tanto la qualità che la rilevanza delle informazioni.

L’ingenuità di Assange sta nel fatto che ignora un fattore rilevante nella produzione dell’opinione pubblica: i rapporti di forza nelle società, le asimmetrie di potere esistenti. La trasparenza può cioè essere funzionale a un regime di illibertà. Negli anni Sessanta, in quella che sarà poi la culla della rivoluzione del silicio, la California, intellettuali e movimenti sociali invitavano a diffidare della «tolleranza repressiva», la caratteristica emergente allora, dominante oggi del rapporto tra singolo e potere costituito. Assange ha invece inseguito il sogno di una realtà dove il ristabilimento dell’equilibrio nell’accesso alle informazioni consentisse, appunto, di bypassare i rapporti di potere vigenti.

Sia ben chiaro, il punto di vista di WikiLeaks ero lo stesso di mediattivisti ben più politicizzati di Julian Assange. Tutti hanno creduto che la condivisione delle informazione e la loro libera circolazione aprisse le porta del regno della libertà.

Uno sguardo più disincantato sul modo di produzione dell’opinione pubblica avrebbe evitato non pochi fraintendimenti. E brucianti sconfitte nel conflitto su «chi decide e cosa» dentro e fuori la Rete.

Il fatto rilevante e dirompente è che la costruzione dell’opinione pubblica è diventato un settore produttivo al pari dell’automobile, del cinema, della musica.

E che quel settore economico è sempre più inscritto nella cornice della Rete come «media universale». Si accede all’informazione sempre più attraverso dispositivi tecnologici differenziati, ubiqui e interscambiabili, dal computer al telefono alla televisione. E che i social media ignorano le classiche intermediazioni giornalistiche della modernità.

E che ogni attività comunicativa è diventata la materia prima di quel capitalismo delle piattaforme[1] (e della sorveglianza).

La società della trasparenza ha cioè precisi protagonisti, che mostrano i brand di Facebook, Google, Amazon[2] e di quel manipolo di data broker che ha il suo leader l’anarco-capitalista Peter Thiel maggiore azionista della Palantir Technologies, che con il fatturato di 20 miliardi di dollari è una della maggiori imprese di Big Data.

Sono questi gli elementi che hanno portato al declino del mediattivismo à la WikiLeaks. Dunque cosa fare?

Continuare certo a incentivare la moltiplicazione delle attività di whistleblowing. La contestazione del segreto industriale e del segreto di stato è sempre cosa buona e giusta.

Allo stesso tempo ogni processo di alfabetizzazione informatica, di diffusione di pratiche di autodifesa digitale – compreso l’anonimato: d’altronde il cypherpunk è stato molto amato da Assange – è benvenuto.

Quello che serve è la saldatura tra presa di parola di chi lavora nell’industria dei Big Data, nelle piattaforme digitali, un lavoro vivo spesso precario che deve farsi espropriare delle proprie capacità intellettuali, e gli utenti della Rete, ridotti a oggetti passivi di un data mining che produce profitti con l’esperienza umana.

È questo l’orizzonte di un rinnovato mediattivismo. Con Julian Assange libero, con Edward Snowden che può circolare liberamente per il mondo. E con Chelsea Manning che può affermare la sua libertà di vivere una vita all’insegna del desiderio e di una identità liberamente scelta.

* Fonte: Benedetto Vecchi, IL MANIFESTO[3]

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Endnotes:
  1. capitalismo delle piattaforme: http://www.manifestolibri.it/shopnew/product.php?id_product=749
  2. Facebook, Google, Amazon: https://ilmanifesto.it/il-capitalismo-delle-piattaforme/
  3. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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