Sorvegliare e punire. Il controllo autoritario dei poveri

Sorvegliare e punire. Il controllo autoritario dei poveri

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Dal 16° RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI – Un mondo alla rovescia

2° Capitolo – POLITICHE SOCIALI

Il Focus – LA SINTESI

Odio, criminalizzazione, esclusione sociale non possono che essere le parole chiave necessarie nel 2018 per analizzare e capire quanto rapidamente sta andando avanti, nel nostro Paese e nell’Unione, un processo di “governo forte”, “disciplinare”, di questi temi sociali cruciali. Sul tema delle migrazioni l’odio razziale è stato sdoganato dall’alto, con un ruolo assai incisivo della politica. Non è diverso per le povertà. Quell’inclusione che, nel vecchio modello, valeva la pena perseguire a fini di coesione e pace sociale, oggi non solo appare troppo onerosa (il famoso o/o del liberismo dominante, o spendi in welfare o destini allo sviluppo o, meglio, al profitto), ma anche tutto sommato non dovuta. I poveri, siano loro a vergognarsi della loro povertà, e a esserne responsabili – colpevoli – individualmente. I poveri divenuti strutturali e non meritevoli di investimento, vanno tuttavia governati. Come noto e verificato, a meno welfare corrisponde più controllo disciplinare, e anche sanzionatorio. Il processo di controllo disciplinare e di criminalizzazione della povertà, il ritorno delle “classi pericolose”, è un processo in atto anche in Europa ormai da tempo. In più, l’ondata populista in Europa ha, nel suo discorso pubblico, un forte ancoraggio all’aporofobia, il rifiuto dei poveri, e si sta giocando la carta della produzione di normative antipoveri alla ricerca di consenso. La povertà, quella visibile soprattutto, instilla in chi povero non è un senso di incertezza e paura, e la paura è strumento tipico dei totalitarismi.

Escludere e punire in Europa. Divieti e sanzioni si stanno diffondendo in tutta l’Unione Europea, soprattutto attorno all’accattonaggio, come testimonia anche un’interpellanza al Parlamento Europeo presentata dalla rete delle ONG europee che lavorano con i senza dimora, a difesa dei loro diritti. In Ungheria, ad esempio, è in corso da otto anni il trattamento sanzionatorio dei senza dimora che segna una nuova, vergognosa, tappa nel giugno del 2018, con la proposta di Viktor Orbán di inserire nella Costituzione un emendamento che vieta di vivere nei luoghi pubblici. Formalmente il governo sostiene che sia un modo per garantire a tutti una casa o un riparo, in realtà i servizi sono insufficienti e sempre meno sostenuti dallo Stato. In quel Paese, inoltre, sono già in vigore norme di penalizzazione, e relative sanzioni, per chi dorme in strada: un programma obbligatorio di lavori socialmente utili, o, in alternativa, una multa. Se la persona non ottempera né all’uno né all’altro, scatta la sanzione penale, e alla terza volta si va direttamente in carcere. Il Regno Unito ha adottato una normativa secondo cui è possibile allontanare forzatamente i cittadini EU se trovati a dormire in un luogo pubblico, in quanto questo comportamento violerebbe le norme sulla residenza.

Senza dimora europei, l’escalation. Le cifre delle persone senza dimora nell’Unione Europea sono in drammatico aumento. I soli Paesi a non registrare un incremento significativo sono Norvegia e Finlandia. In tutto il resto del continente c’è allarme rosso: tra il 2014 e il 2016 +145% in Irlanda e +150% in Germania, con 860.000 homeless censiti e +20,5% in Spagna; +169% nel Regno Unito negli ultimi 10 anni; tra il 2008 e il 2016 +96% in Belgio e +32% in Austria; in Francia in un solo anno la crescita è del 17%. Questo trend riguarda anche i minori: sono 3.333 i bambini homeless in Irlanda nel 2017, +276% rispetto al 2014; in Olanda sono 4.000 nel 2015, +60% rispetto al 2013; in Francia, dove nel 2012 risultano più di 30.000 minori senza tetto, il 33% degli utenti di strutture per homeless sono under18, il gruppo più numeroso. In media, le persone restano nella condizione di senza dimora per più di 10 anni, e come conseguenza di un così prolungato periodo di deprivazione, l’aspettativa di vita è di 30 anni inferiore rispetto alla media della popolazione.

Anche contro i senza dimora è stato sdoganato il razzismo. Uno studio spagnolo segnala una percentuale del 47% delle persone senza dimora che sono state bersaglio di hate crimes, di cui l’87% non ha denunciato l’accaduto; tra le donne homeless il 26% ha subito qualche forma di violenza fisica. Secondo un’altra ricerca, ad agire discorsi o comportamenti di odio sono soprattutto uomini (l’87% dei casi), giovani (il 57% degli autori ha una età tra i 18 e i 35 anni); 10% dei casi è imputabile ad agenti di polizia e l’8% a persone dichiaratamente naziste. Un progetto valido di aiuto ai senza tetto che si sta diffondendo è Housing first, che separa l’accesso a una casa dalle altre forme di sostegno. Non è richiesto ai senza tetto di aderire a percorsi o servizi psichiatrici o per le dipendenze o per l’alcol, né devono dimostrare di essere astinenti, secondo un approccio di riduzione del danno. Housing First è orientato alla recovery, cioè sostiene e incoraggia le persone a non mettere in atto comportamenti che possano causare loro danno. Oggi è adottato in larga parte dell’Unione, soprattutto in Danimarca, Finlandia, Irlanda, Francia, Olanda, Portogallo, Austria, Regno Unito. Anche in Italia si sta diffondendo questa strategia: all’inizio del 2017, sono censiti 28 progetti in 10 regioni, dal Piemonte alla Sicilia.

Italia. Dal Pacchetto sicurezza al decreto Minniti. In Italia le regole contro i senza fissa dimora sono appannaggio delle città e dei sindaci, con l’ondata delle ordinanze seguite a una innovazione legislativa nazionale, quella legge n. 125 del 2008 che, all’articolo 54, attribuisce ai sindaci il potere di deliberare in difesa della incolumità pubblica e della sicurezza urbana. Nel 2017 arriva il decreto Minniti sul “DASPO urbano”. Il decreto è figlio dell’incattivimento dei tempi e di una strategia di governo delle città di lungo periodo, sancisce l’esclusione di gruppi sociali specifici che vivono in una condizione di marginalità, di disagio sociale, di povertà, o anche solo di “differenza” sociale o culturale. Prevede sanzioni e divieti per condotte specifiche: divieti di stazionamento e di occupazione di spazi, impedimento alla libera accessibilità e fruizione di infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano o extraurbano e delle relative pertinenze; e di chi sia in stato di ubriachezza, compia atti contrari alla pubblica decenza, eserciti il commercio abusivo, eserciti attività di parcheggiatore o guardiamacchine abusivo; sanzione amministrativa pecuniaria (100-300 euro) e ordine di allontanamento in violazione dei divieti di stazionamento, la recidiva comporta un divieto di accesso a una o più delle aree espressamente indicate per un massimo di sei mesi (il DASPO urbano, decisione del questore); in caso di reati, l’arresto in flagranza può avvenire in maniera differita, sulla base di documentazione video fotografica entro 48 ore dai fatti. Insomma, a gruppi sociali specifici tra i più svantaggiati viene applicato un sistema repressivo che si sottrae alle regole e alle garanzie del diritto penale e a questo si aggiunge, ampliando a dismisura l’area del controllo e della sanzione destinata ai poveri.

L’informazione indipendente fornisce i dati dell’applicazione del decreto: nell’arco del periodo febbraio-dicembre 2017 risultano 2.104 provvedimenti, l’85% sono ordini di allontanamento (1.781) 305 sono divieti di accesso in aree urbane e 18 divieti di accesso in esercizi pubblici. Il trend è in crescita nel corso dei mesi, soprattutto della misura predominante, che viene comminata soprattutto al Sud (il 64% degli ordini di allontanamento avviene in Sicilia, 546, Lazio, 530 e Campania, 495) e nelle grandi città (Palermo, Roma e Napoli); il 10% in Veneto (212), soprattutto a Venezia, il 4% in Calabria, a Reggio Calabria (86). Ai minimi, Trentino-Alto Adige (un solo provvedimento) e Marche (5). Le stesse tre regioni del Centro-Sud totalizzano la gran parte dei divieti di accesso urbano (il 73% del totale, 222 provvedimenti), seguite da Lombardia (13%, 39) ed Emilia-Romagna (8%, 20). La durata prevalente del divieto di accesso è di 5 giorni o meno (il 73%), ma non sono pochi i provvedimenti che arrivano a 2-3 mesi (18%) e c’è un 6% che arriva ai 6 mesi. Si tratta innanzitutto di senza dimora, nativi e migranti, colpiti per comportamenti quali bivacco (dormire), atti osceni in luogo pubblico (urinare), consumo di bevande in luogo pubblico, improprio utilizzo delle fontane pubbliche per lavarsi. Poi venditori ambulanti e giocolieri, parcheggiatori, persone rom che fanno colletta. Secondo gli ultimi dati ISTAT (che risalgono però al 2014) i senza casa in Italia sono 50.724, per circa il 60% stranieri, per l’85% maschi, per il 56% al Nord. E il 76,6% vive da solo. Si trovano soprattutto nelle grandi città e nei capoluoghi: Roma, Milano, Palermo, Firenze, Torino, Napoli, Bologna. Solo un terzo deve vivere di collette, ben il 62% trova lavori e lavoretti e accumula tra i 100 e i 500 euro al mese, il 14% ha problemi di alcol, droghe e disturbi psichiatrici. Secondo la Caritas (che ne ha censiti 26 mila nei suoi Centri d’ascolto), hanno una età media di 43 anni, ma ci sono anche molti giovani tra i 18 e i 34 anni, più di un quarto del totale. Una rilevazione del 2017 della Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora – l’organismo di coordinamento tra gli enti che si occupano di senza casa – mette in evidenza un trend di sviluppo della condizione homeless, secondo cui le categorie in aumento sono quelle dei più giovani (inclusi minori stranieri non accompagnati), delle donne, dei lavoratori poveri e di persone che hanno malattie gravi o terminali.

Le architetture “ostili”. Pensate per impedire il sostare, il sedersi, il dormire è una tendenza comune a tutte le città europee. La politica architettonico-securitaria è ormai dispositivo di governo delle povertà urbane. A Londra, ad esempio, è nata Camden Bench, una panchina di cemento che ha bordi arrotondati e una pendenza che fa sì che dopo breve tempo risulti scomodissimo restarvi seduti, tanto meno vi si può dormire o stazionare a lungo. La gamma è ormai ampia: panchine con braccioli nel mezzo; sedute curve, segmentate e inclinate; pavimentazioni irregolari e con sporgenze e aculei in ferro; muretti e gradini con spuntoni e aculei; angoli barricati; divisori stradali e dei marciapiedi. L’Italia non fa eccezione. Antesignana di tutte le panchine anti-sonno fu quella disegnata per il sindaco Flavio Tosi di Verona, già nel 2007, dotata di braccioli che ne dividono la superficie e impediscono di sdraiarsi. Panchine come quelle sono proliferate in tutto il Paese, accompagnate dalle “non-panchine” alle fermate dei bus, dove ci si può solo appoggiare e non sedersi.

A mano armata. I frutti violenti del securitarismo. Con la crescita dell’enfasi securitaria, dell’insicurezza percepita e delle retoriche giustizialiste, cresce la quota di violenza endemica nella società, i cui bersagli sono sempre più gli esclusi e i migranti.

Le ricadute sulla polizia municipale delle normative sulla sicurezza urbana hanno portato verso una sua maggiore militarizzazione e una centralità della sua funzione anticrimine. Il processo di armamento delle polizie locali è in crescita: tra i capoluoghi di provincia solo nel 12% dei casi la polizia non è dotata di armi. Nel restante 88%, 90 città, l’armamento è andato aumentando dal 2012, anno in cui era armato l’85% del personale, nel 2014 era l’87%, nel 2016 il 92%. Complessivamente, nei capoluoghi circolano nella polizia municipale 27.308 armi. Il Taser, la “pistola elettrica non letale” i cui impulsi elettrici (50 mila volt!) paralizzano momentaneamente (ma a volte definitivamente…), dal 5 settembre 2018 viene sperimentata come arma di ordinanza per polizia, carabinieri e Guardia di finanza. Inoltre, in base al decreto Salvini su sicurezza e immigrazione, sempre del settembre 2018, anche i Comuni oltre i 100 mila abitanti potranno dotare di Taser la polizia municipale, decidendolo con un semplice regolamento comunale. La logica dichiarata è quella di intervenire a mano armata limitando i rischi delle armi da fuoco, ed è una logica prettamente adeguata all’ordine pubblico sulle strade metropolitane, ma secondo molte associazioni per i diritti umani, guardando all’esperienza in USA e Canada, l’effetto sarà ben diverso: il Taser spesso non è utilizzato dalle polizie come alternativa meno pericolosa rispetto all’arma da fuoco, ma come alternativa più incisiva ad altri mezzi coercitivi come manette o manganelli. Dunque, con un possibile uso anche in ordine pubblico o, appunto, contro poveri o emarginati che “disturbino”. I casi di morti correlate all’utilizzo del Taser negli USA dal 2001 a oggi sono circa mille, il 90% erano persone disarmate, con problemi di salute dovuti anche all’utilizzo di alcol o droghe, o anche solo in stato di stress e fatica dopo una corsa. Amnesty International denuncia «la facilità con cui il Taser può rilasciare scariche multiple, che possono danneggiare anche irreversibilmente il cuore o il sistema respiratorio».

Il razzismo democratico. Il senso comune e lo hate speech contro poveri e diversi ha “liberato” la violenza contro gli ultimi. Hanno riempito le cronache gli attacchi razzisti a persone di colore, compiuti come veri e propri raid, armi in pugno. Ma nel 2018 c’è da registrare anche la pratica diffusa di “tiri al bersaglio” con armi pneumatiche ad aria compressa, su cui i responsabili hanno un atteggiamento superficiale e autoassolutorio, come si trattasse di ragazzate. Sono 11 i casi noti nell’estate 2018, tutti ai danni di persone straniere. La corsa al porto d’armi è già scattata da tempo. La Lega avanza sulla riforma della legittima difesa, mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha già onorato il patto con la lobby delle armi (un indotto di 2.264 imprese, un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro, cioè lo 0,44% del PIL, 87.500 occupati). Il 10 agosto 2018 viene emanato il decreto n. 104 che porta da 6 a 12 le armi sportive che si possono detenere, arrivano a 10 le armi lunghe e a ben 20 quelle corte e cresce anche il numero dei proiettili, si allarga dismisura il numero delle tipologie di persone che possono detenere un’arma da guerra, grazie all’ampliamento della platea dei “tiratori sportivi”.

La politica degli sgomberi. Un altro esempio di questo spirito securitario sono gli sgomberi di abitazioni o luoghi occupati abusivamente. Le ragioni del moltiplicarsi di occupazioni di stabili sfitti sta tutta nei numeri, delle povertà in generale, e in quelli delle mancate politiche per la casa, in particolare. Secondo dati del ministero dell’Interno, nel 2017 sono state emesse 59.609 sentenze di sfratto, e di queste ben il 90% è per morosità incolpevole, che vuol dire impossibilità manifesta degli inquilini di poter far fronte alle spese dell’affitto. Occupare case sfitte o strutture in disuso, dunque, è l’unica alternativa per molte famiglie italiane, oltre che per molti migranti e richiedenti asilo. Il primo settembre 2018 Salvini ha firmato una circolare che, rifacendosi al decreto Minniti, valuta positivamente l’azione tempestiva per prevenire nuove occupazioni, ma invita a fare meglio: cioè, ad attivare attività info-investigative per prevenire possibili invasioni. Prende il via, dunque, il nuovo corso: vengono sgomberati rifugiati, migranti, italiani, rom, senza alcuna alternativa, tanto che seguono immediate nuove occupazioni, in un crescendo di tensione e conflittualità sociale.

I campi rom. In Italia 26.000 persone rom vivono in emergenza abitativa nei campi, 16.400 in 148 insediamenti formali e circa 10.000 in campi informali. Il 73%, 7.000 persone, è disseminato in cinque regioni: Campania, Lazio, Piemonte, Puglia e Lombardia. Le politiche municipali oscillano tra tolleranza di situazioni anche informali a cui non hanno soluzioni da offrire, e loro parziale regolamentazione, e politiche dello sgombero forzato, spesso senza alternative e dunque destinato a riprodurre e disseminare altri campi informali. Il 2017 si caratterizzano per un elevato numero di sgomberi forzati in molte città, condotti spesso in deroga alle tutele procedurali previste dal diritto internazionale. Gli sgomberi forzati sono stati 230, 96 nel Nord Italia, 91 nel Centro e 43 nel Sud; a Roma sono stati 33 e a Milano 25. Eguale tendenza si verifica nel 2018.

Le politiche sulle droghe. Nel 2014 la Corte Costituzionale boccia la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, e si ritorna al testo della legge 309 del 1990. Non una rivoluzione, ma almeno l’abrogazione di alcune tra le misure più afflittive. Con l’articolo 13 del decreto Minniti si ritorna indietro. Nei confronti di soggetti condannati (anche solo in appello) nell’ultimo triennio per reati di produzione, traffico, cessione e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, il questore ha il potere di disporre il divieto di accesso o anche stazionamento nei locali pubblici o nei pubblici esercizi. La violazione delle misure comminate è punita con una sanzione pecuniaria amministrativa (assai elevata, tra 10 e 40 mila euro) e con la sospensione della patente. E si torna al vecchio 75 bis della legge Fini-Giovanardi, che prevedeva appunto una serie di misure comminate dal questore verso persone con condanne anche non definitive per reati sugli stupefacenti e giudicate pericolose per la sicurezza pubblica. Le misure del decreto Minniti sono destinate alle figure minori, quelle di strada, spesso consumatori che spacciano su modica scala o comunque piccoli spacciatori. Come sempre, la gran parte dei dispositivi penali sulle droghe toccano i pesci piccoli e non intaccano il mercato nero e il grande traffico. Con il decreto Minniti riprende a salire la percentuale di chi entra in carcere per detenzione di sostanze, il 30% degli ingressi, 14.139 su 48.144, l’8,5% in più rispetto all’anno precedente, mentre coloro che sono incarcerati per traffico sono solo 4.981, e per associazione finalizzata al grande traffico 976. Le persone tossicodipendenti detenute sono una su quattro, 14.706 su 57.608, anche questo un trend di nuovo in ascesa dopo il calo seguito all’abrogazione della legge Fini-Giovanardi. Ma è il dato delle persone obbligate al colloquio prefettizio e sottoposte a sanzioni amministrative a dare il polso dell’aria che tira: per detenzione ai fini del solo consumo personale (art. 75), vengono sanzionate nel 2017 38.613 persone, con ben +18% sul 2016 e +39% sul 2015. I minori vengono colpiti quattro volte più del 2015, i consumatori di cannabis rappresentano l’80%. Le sanzioni comminate, 15.581 (+15%), colpiscono il 43% di quanti inviati dal prefetto, a fronte di un’irrilevanza degli invii a un percorso terapeutico, 86 in tutto. Sulla scia di Minniti, insieme al DASPO urbano per i pesci piccoli del mercato delle droghe, il nuovo governo gialloverde lancia un piano law&order per le scuole nella stessa logica di privilegio degli strumenti repressivi che tutta la politica del governo delle città esprime. Scuole sicure, direttiva del ministero dell’Interno che punta a debellare lo spaccio nelle scuole grazie a videosorveglianza, polizia e cani, investendo 2,5 milioni di euro di cui solo il 10% a favore di un lavoro educativo.

Hate speech, cresce il razzismo. La Mappa dell’Intolleranza, stilata da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, segnala per il 2017-2018 una decisa crescita dei discorsi d’odio on line, soprattutto per xenofobia, islamofobia e antisemitismo, tra le categorie analizzate (che includono anche donne, persone omosessuali e diversamente abili). Le analisi si basano sui messaggi su Twitter in due periodi, tra maggio e novembre nel 2017 e tra marzo e maggio nel 2018. I migranti sono il secondo target dell’odio: i messaggi xenofobi sono il 32,45% del totale nel 2017 e il 36,93% nel 2018, con un incremento in pochi mesi del 4%. Il contesto è quello di un aumento esponenziale dei casi di discriminazione rilevati, di cui il 69% avviene appunto per ragioni razziste, dai 540 del 2000 ai 2.652 del 2016, 5 al giorno. Gli italiani pensano per il 42% che gli stranieri siano troppi; sono in realtà poco più di 5 milioni (5.144.440 immigrati regolarmente residenti, corrispondenti all’8,5% della popolazione totale, secondo il XXVII Rapporto della Caritas sull’immigrazione), che portano l’Italia a collocarsi al 5° posto in Europa e all’11° nel mondo. Il 24% vorrebbe respingerli tutti, il 44% vorrebbe accogliere solo rifugiati. Se poi si parla di rom, l’Italia vanta il primato negativo degli haters: l’82% li odia, nessuno peggio di noi. Le grandi città sono le più razziste e xenofobe, Roma, Milano, Napoli, Firenze, Torino.

Tutti i bersagli dell’odio on line. Le donne innanzi tutto, poi gli islamici, verso cui cresce l’odio in tutto il Paese. Nuovo primato negativo, gli italiani antisemiti, il 21%, i peggiori in Europa. Ci sono 300 siti web antisemiti, di cui 20 negazionisti e 160 profili Facebook. Il 40% delle persone LGBT dichiara di aver subito nell’ultimo anno una discriminazione, soprattutto a scuola e sul posto di lavoro, sono il 60% gli italiani che vorrebbero “maggior discrezione” da parte delle persone LGBT, il 30% pensa sia meglio nascondere la propria omosessualità, il 41% non vorrebbe una persona omosessuale come insegnante. Soprattutto al Sud e in Lombardia permane l’odio verso i disabili. Le grandi città sono le più intolleranti: presi di mira sindrome di down e disabilità gravi. Infine, il barometro dell’odio cresce in tempi di campagna elettorale: in tre settimane 787 segnalazioni, un messaggio di odio ogni ora. Riguardano 129 candidati di cui oggi 77 siedono in Parlamento. Il 43,5% degli hate speech viene da leader politici, primato alla Lega (50%), 27% Fratelli d’Italia, 13% Forza Italia, 4% Casa Pound, il 3% L’Italia agli Italiani e 2% Movimento 5 Stelle. Il bersaglio privilegiato, il migrante (91%), ma ce n’è anche per persone LGBT (6%), rom (4,5%) e donne (1,8%). Il 7% delle dichiarazioni incita in modo esplicito alla violenza.

* Fonte: 16° Rapporto sui diritti globali

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Foto di Public Domain Pictures da Pixabay



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