Boris Johnson entra nel bunker da premier e parte il rimpasto

by Leonardo Clausi * | 26 Luglio 2019 10:14

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Gli amanti dell’horror apprezzeranno particolarmente il rimpasto di governo del neoinsediato primo ministro britannico Boris Johnson. Soprattutto quando si ha Halloween – il 31 ottobre prossimo – come data ultima per l’uscita senza accordo dall’Ue. Come anche quelli dell’arte circense: questa stessa data, leader e compagine da lui appena partorita senza doglia alcuna, fanno infatti pensare anche a Phineas Barnum, lo sfruttatore delle deformità altrui, che dava in pasto al pubblico nel suo circo facendoci sopra i soldi.

DUNQUE VENGHINO SIGNORI, venghino. Più che un rimpasto, si è trattato dell’ennesima resa dei conti interna nei Tories fra leavers e remainers dove i primi, finalmente vincitori, hanno falcidiato i secondi. Alcuni ritorni: particolarmente perniciosi quello di Priti Patel agli Interni (la grettezza fatta politica, una che in passato si diceva favorevole alla reintroduzione della pena di morte) e Dominic Raab, ex-ministro per Brexit nel cabinet di Theresa May e forte dell’acume politico di un professore di educazione fisica, naturalmente al Foreign Office. Uscitista della prima ora e già dimissionario anche lui, come lo stesso Johnson, dal governo May, Raab è stato suo concorrente nella corsa alla leadership finendo per sostenerlo nella speranza – esaudita – di ottenere un ruolo di primo piano. Ed è, naturalmente, un esagitato nazionalista. Tra i pochi sopravvissuti dell’era May Matt Hancock alla Sanità e Sajid David, spostato dagli Interni alle Finanze. Da segnalare il ritorno di Amber Rudd (tra i pochissimi remainer), al Lavoro e i Rapporti con il parlamento, che Johnson ha riconosciuto a Jacob Rees-Mogg. Altri avevano lasciato prima pur di evitare l’umiliazione di un licenziamento: in particolare il moderato remainer Philip Hammond, ex Finanze.

INSOMMA È UN GOVERNO con dei fanatici laici – il nazionalismo è dopotutto la versione laica del fanatismo religioso – nei posti chiave, in perfetto unisono con il trend autoritario e fascistoide che attraversa l’Atlantico: è così che Johnson pensa di neutralizzare l’attacco da destra mossogli da Farage. Ma ieri è stato per lui soprattutto il giorno della retorica, l’unica cosa in cui crede di eccellere, vuoi per il latinorum degli studi classici, vuoi per l’adrenalina churchilliana che gli inturgidisce le vene quando parla e quando Winston gli compare tumultuosamente in sogno.

SE PER TUTTA LA VITA JOHNSON si è immaginato nel bunker, circondato dal fido stato maggiore a decidere la strategia contro le forze dell’Asse, ora è lui stesso in quell’aula, che arringa un parlamento scosso dai tremiti della paura. Per trasfigurarlo e infondergli una volta ancora il coraggio necessario alla lotta: ieri contro i nazi, e oggi contro gli Europei uniti – che non a caso lui stesso, storiografo da edicola alla stregua di un Montanelli – aveva paragonato, non solo ai bei tempi delle ciarle giornalistiche, alla Germania nazista.
Un discorso di esordio da Pm, il suo, parodistico nella magniloquenza, che farnetica del Paese più grande del mondo, e di altre iperboli che nel XXI secolo suonano grottesche ancor prima che deliranti. Con tanto sbracciare e soffiare, per timore che le parole da sole non riescano a eccitare entusiasmi.

ERA QUELLO CHE I SUOI, nel partito e tra gli iscritti, volevano sentirsi dire in un rito di autocelebrazione collettiva ormai ampiamente scivolata nel settarismo. Ma soprattutto, un tono da campagna elettorale permanente ormai praticato diffusamente. Promettere di uscire il trentuno senza sapere come, pur di infiammare gli animi e vincere una maggioranza che permetta lo strappo e si liberi dell’incubo di una vittoria laburista: è questo il metodo nella pazzia filodrammatica di Johnson.

* Fonte: Leonardo Clausi, IL MANIFESTO[1]

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