by Marco Boccitto * | 2 Luglio 2019 10:16
Pacificamente e dimostrando coraggio da vendere (gli oltre 100 morti del 3 giugno scorso non li scorda nessuno), i manifestanti sono tornati numerosi in piazza, domenica in Sudan, per rivolgere all’intero Consiglio militare di transizione (Tmc) lo stesso grido ritmato, Tasqut bas!, «devi cadere», che fino a tre mesi fa scandiva le marce contro il presidente Omar al Bashir.
UN’ENNESIMA MILLIONS MARCH, forse la più grande di tutte, malgrado le limitazioni al web che hanno creato sgomento tra le file dei tanti video-attivisti che hanno documentato in diretta le proteste degli ultimi sei mesi, per commemorare gli ultimi “martiri” di questa rivoluzione infinita e tornare a chiedere con forza il trasferimento del potere a un governo di transizione a maggioranza civile. Come chiedono l’Onu e l’Unione africana, in sintonia con la mediazione del premier etiope Abiy Ahmed.
Era anche la piega presa dai difficili negoziati condotti da un largo, larghissimo cartello di sigle, associazioni, partiti politici, un arco di sensibilità che va dall’islam sociale “moderato” ai comunisti, movimenti regionali anche armati ma in corso di pacificazione, con ampi settori del mondo del lavoro e tanti professionisti in prima linea, medici, avvocati, giornalisti. Poi il bagno di sangue del 3 giugno ha congelato tutto. A denti stretti, troppo stretti, le autorità militari alla fine hanno ammesso gli «errori commessi» quel giorno. Ma niente di più.
Anche domenica non è mancato il sangue, con 7 morti e 181 feriti (stime ufficiali del ministero della Sanità) a cui bisogna aggiungere altre tre vittime scoperte ieri a Omdurman, la città gemella della capitale Khartoum, sulla sponda opposta del Nilo. E dove la mano delle forze di sicurezza è stata più pesante (tra le vittime anche due medici). Qui la protesta ha ripreso vigore già ieri mattina, dopo il ritrovamento dei tre corpi, crivellati dai proiettili, nei pressi di una scuola.
IN TOTALE, oltre a una decina tra poliziotti e militari feriti dalle pietre lanciate dai dimostranti, sarebbero 27 le persone ricoverate con ferite da armi da fuoco. Il fatto che tra queste ci siano tre membri delle ormai famigerate Rapid Support Forces da un lato testimonia l’ostinata presenza nelle strade dei paramilitari responsabili della mattanza del 3 giugno, dall’altro consente alla giunta di tornare a denunciare infiltrazioni e cecchini con le armi puntate contro i soldati. Lo ha fatto puntuale ieri il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, uomo forte della giunta e capo indiscusso dei miliziani di cui sopra, nel cui curriculum finora brillavano più che altro i massacri compiuti nel Darfur. È stato il più vicino al presidente al Bashir e uno dei primi a mollarlo quando ha percepito che il vento stava cambiando.
I MILITARI ACCUSANO gli organizzatori della protesta a Khartoum di aver deliberatamente cambiato il persorso del corteo, puntando sul palazzo presidenziale e il quartier generale dell’esercito. Ovvero verso la zona che per due mesi filati ha ospitato il sit-in pulsante e permanente dell’opposizione e che oggi è off limits.
Inaccessibile e imperscrutabile è anche il disegno dei militari, una élite residuale del vecchio regime, capace di autopurgarsi per salvare le apparenze ma anche di restare aggrappata alle sue certezze di ordine-e-sicurezza, irrobustite dall’appoggio economico dei sauditi.
A dispetto del trasporto con cui oggi ripetono di voler «proteggere la rivoluzione sudanese», sono espressione di un modello che a differenza di quanto avvenuto nel vicino Egitto qui era riuscito a saldare le istanze dell’islam politico con un militarismo autoritario vecchio stile. Ora invocano «un accordo urgente e globale» con l’alleanza delle Forze per la libertà e il cambiamento. Ma l’ennesima strage nelle strade del Sudan non sembra destinata a favorirlo.
Una severa crisi economica, svalutazione record, l’ennesimo aumento di pane e benzina. È la scintilla alla base delle proteste iniziate nel dicembre del 2018 in diverse città sudanesi. Una folla di volta in volta crescente ha cominciato a chiedere le dimissioni di Omar al Bashir, al potere da quasi trent’anni e considerato il responsabile dell’isolamento internazionale, della carenza di diritti e libertà fondamentali. Lui reagisce instaurando nel febbraio 2019 lo stato d’emergenza e ordinando una repressione che causerà decine e decine di vittime. Fino al 6 aprile, quando l’ennesima enorme manifestazione nelle strade della capitale viene trasformata in un sit-in permanente di fronte alla sede dell’esercito. Motore organizzativo delle proteste, che vedono per la prima volta una massiccia partecipazione femminile, la Sudanese Professionals Association (Spa)
L’11 aprile al Bashir viene arrestato da un gruppo di alti ufficiali dell’esercito che instaurano un Consiglio militare di transizione e confermano lo stato d’emergenza per i successivi due anni, in attesa che si possano svolgere le elezioni. I manifestanti si rifiutano di smobilitare il sit in a Khartoum e iniziano un’estenuante braccio di ferro con i generali. Sotto l’ombrello delle Forze per il cambiamento e la libertà si ritrovano tutte le anime dell’opposizione, che conducono il negoziato. In più di un’occasione l’accordo per la formazione di un governo nel quale la presenza dei militari sia circoscritta e priva di potere esecutivo sembra dietro l’angolo. Ma l’intesa non verrà mnai formalizzata. Il 3 giugno, con la scusa di ripulire una zona di spaccio e prostituzione adiacente al sit in l’esercito procede allo sgombero.
Dopo il blocco e le limitazioni imposte dalla giunta militare, internet torna a funzionare regolarmente in Sudan. Ma solo per una persona. L’avvocato Abdel Adheem Hassan ha raggiunto l’esclusivo traguardo portando davanti i giudici la compagnia telefonica Zain Sudan, responsabile di aver attuato – sotto pressione dei militari – la sospensione di tutti i servizi legati alla rete. E la corte ha riconosciuto la fondatezza delle sue rimostranze: l’avvocato accusava la compagnia di esser venuta meno ai doveri contrattuali. Nella casa di Hassan è quindi tornato internet. L’avvocato però non ha intenzione di fermarsi qui. Nei prossimi giorni porterà nuovamente in tribunale la Zain Sudan. Obiettivo: combattere per il diritto all’informazione e all’accesso alla rete di tutto il popolo sudanese, questa volta, non solo di uno.
In Sudan la musica ha accompagnato tutti i rivolgimenti sociali e politici che si sono succeduti nel paese dall’Indipendenza in poi. In questa occasione accanto a decine e decine di instant songs, perlopiù opera dei rapper della diaspora, si è assistito a un consapevole recupero anche dei fermenti “notturni” e di frontiera che alla fine degli anni 80 vennero spazzati via dall’avvento del regime islamo-militarista di Omar al Bashir, che ha sempre manifestato una certa insofferenza per canti che non fossero quello del muezzin. Il contrappasso è inclemente, perché oggi uno degli ultimi discorsi tenuti dall’anziano leader nel Nord Kordofan, è diventato un rap rabbioso di Muayed Al Khalifa (MAK). E grazie alla voce di Zoozita è tornata in pista anche una vecchia canzone di Mohammed Wardi che aveva segnato la rivolta con cui già nell’ottobre 1964 la società civile si era sbarazzata dei militari golpisti. Si intitola «Ottobre verde», perché l’accento di quella rivoluzione era sull’agricoltura.
* Fonte:
IL MANIFESTO[1]Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2019/07/in-sudan-una-rivoluzione-irrisolta/
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