In Sudan un’intesa civili-militari apre la strada a un governo di transizione

In Sudan un’intesa civili-militari apre la strada a un governo di transizione

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Stavolta sembra fatta. Ci mette la faccia l’Unione africana con il suo inviato Mohamed Hacen Ould Lebatt che ha annunciato ieri l’accordo; ce la mette il premier etiope Abiy Ahmed, non smentendo qui la giovane ma già affermata fama di risolutore delle cause perse che lo ha preceduto; ce la mettono soprattutto i membri delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc), alleanza multiforme che per tre mesi ha tenuto testa alla giunta militare e già ieri fibrillava di fronte alle critiche che si alzavano da più parti, per aver concluso un compromesso al ribasso. Pur nella consapevolezza che certe concessioni avevano il nobile scopo di evitare un altro bagno di sangue.

Il dirigente del Partito comunista Tarek Abdel Meguid, uno dei leader dell’Ffc, riconosce che «questa rivolta civile aveva rigettato l’idea di dividere il potere con i militari», ma giustifica l’intesa come «ciò che l’equilibrio dei poteri impone ora».

QUINDI ECCO PROFILARSI un Consiglio sovrano – lo scoglio emerso a più riprese dai negoziati – composto da cinque membri del Tmc e cinque dell’Ffc, più un’undicesima figura di garanzia. Per i primi 21 mesi saranno i generali a dare le carte, esprimendo un loro presidente. Viceversa, il governo di transizione a maggioranza civile per cui si sono tanto battuti milioni di sudanesi inizierà solo a quel punto, per condurre il paese alle elezioni nel corso dei successivi 18 mesi. In tutto fanno tre anni e tre mesi di transizione.

Le parti si danno altri tre mesi di tempo per nominare un parlamento transitorio, nel quale l’Ffc avrebbe comunque garantita una larga maggioranza. Da subito dovrebbe però insediarsi una sorta di hard team tecnico chiamato a imbastire le riforme economiche e sociali rivendicate nelle strade del Sudan fin dallo scorso dicembre, in un crescendo di manifestazioni che ha poi costretto i generali ad autopurgarsi, con l’arresto del presidente Omar al Bashir, per trent’anni unico loro faro, e l’allontanamento di un manipolo di impresentabili. «Vogliamo proteggere la rivoluzione», sono arrivati a dire, provando inutilmente a metterci il cappello.

Sul fronte del Consiglio militare di transizione (Tmc) la faccia ce la mette il generale Mohamed Hamdan Dagalo, ieri sorridente e inclusivo come non mai. Resta tuttavia la presenza più ingombrante nelle stanze del potere, per il semplice fatto che rispondono a lui le Rapid Support Forces, figlie dei janjaweede delle loro condotte sanguinose durante la guerra civile nel Darfur. Sono i responsabili dei massacri di queste ultime settimane e in particolare di quello avvenuto il 3 giugno con lo sgombero del sit in permanente di fronte alla sede delle Forze armate degenerato in un eccidio, con 120 vittime e decine di dimostranti inermi uccisi anche a colpi di machete e poi gettati nel Nilo.

PER QUESTO, IL PUNTO MIGLIORE segnato nell’accordo sembra essere il via libera a una commissione d’inchiesta indipendente, sotto l’egida dell’Unione africana, sul comportamento delle forze di sicurezza a partire dall’11 aprile scorso, data d’insediamento della giunta.
L’esercito sudanese ci ha abituato in queste settimane a ripensamenti improvvisi e bizzosi colpi di mano. Vedremo se stavolta saprà mordere il freno. Quanto a Abiy Ahmed, che nel frattempo a Addis Abeba ha dovuto affrontare uno strano e cruento tentativo di golpe, sarà di nuovo a Khartoum lunedì, quando presumibilmente avverrà la certificazione cerimoniale dell’intesa. La festa, nelle strade, è già cominciata.

* Fonte: Marco Boccitto, IL MANIFESTO



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