Libia. Strage di migranti nella prigione di Tajoura sulla linea del fronte

by Rachele Gonnelli * | 4 Luglio 2019 12:06

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Un ammasso di polvere e detriti, ciabatte infradito rotte, materassi insanguinati, brandelli di vestiti e pezzi di cadavere sotto le lamiere contorte verso il cielo del tetto: ciò che resta del capannone chiamato «detention camp», con al centro un cratere di meno di un metro di diametro, segno che la bomba è caduta dal cielo, in piena notte, a Tajoura. «Avevamo visitato il centro il giorno prima e nella cella che è stata colpita c’erano 126 persone ammassate», ha detto ieri Prince Alfani, coordinatore medico di Msf in Libia, che ha aiutato la Mezzaluna rossa a raccogliere i feriti. Di quelle 126 persone, un’ottantina sono state recuperate ancora in vita, i morti, i cui corpi giacciono sparsi si contano per sottrazione: almeno 44, forse di più.

Dopo il boato notturno un’onda di terrore ha abbattuto ciò che restava in piedi, le paratie, il cartongesso, i muri graffiati di scritte dai prigionieri – «we love», «I live», nomi, cose così – e bucati da precedenti razzi. «Tanti erano feriti, scappavano, alcuni sono morti in strada mentre correvano, non sappiamo cosa altro dire, solo che speriamo che l’Onu ci aiuti a uscire da questo posto che è pericoloso», ha raccontato Othman Musa, nigeriano sopravvissuto, intervistato dai media arabi tra i migranti sdraiati all’ombra delle macerie davanti al campo di Tajoura.

TAJOURA più che una cittadina, è un conglomerato di case, ristori all’aperto e bancarelle lungo uno stradone alla periferia ovest di Tripoli. E, dall’inizio dell’offensiva del generale Haftar, il 4 aprile, questa è la strage di civili più grande, che in un colpo solo ha eguagliato il bilancio dei civili libici rimasti vittime del conflitto in questi tre mesi esatti. Hussein bin Attieh Al Ahrar, anziano di Tajoura ha raccontato che nella notte sono stati due i raid che hanno colpito la prigione per migranti. Un attacco deliberato del generale Haftar ora in difficoltà, dopo la disfatta e la cacciata dalla strategica cittadina di Gharyan dove aveva il suo centro logistico? È questa l’accusa che gli viene dai nemici del cosiddetto «governo di accordo nazionale» guidato da Fayez Serraj, il premier di Tripoli che non più tardi di lunedì scorso era a Milano a colloquio con il ministro Matteo Salvini a chiedere maggiore appoggio, anche militare, in cambio delle solite assicurazioni sul dossier migranti – i respingimenti della sua Guardia costiera – ciò che a Salvini interessa della Libia, più petrolio e affari.
«Un crimine di guerra», ha tuonato ieri Serraj, e così ha detto anche in una nota ufficiale il governo turco, suo dichiarato alleato militare, chiedendo un’indagine indipendente delle Nazioni Unite. Che lo sia, un crimine di guerra, è indubbio, lo ha ripetuto lo stesso inviato speciale Onu per la Libia Ghassam Salamé, più Mogherini per la Ue, l’Unione africana.

HAFTAR, IL PRINCIPALE INDIZIATO con il suo cosiddetto «Esercito nazionale libico», impegnato proprio in questi giorni e in queste notti nel tentativo di recuperare le posizioni perdute sul terreno, ha rigettato le accuse sul campo opposto. Ma la colpa in guerra è una signora che si vuole infedele sulla bocca di tutti. La missione Unsmil dell’Onu ha dichiarato che al momento non è possibile accertare le responsabilità del massacro, ma l’inchiesta dell’Onu ci sarà, ha confermato il portavoce Charlie Yoxley, naturalmente con i tempi del caso, ed è un caso di guerra.

Un deposito di armi e munizioni è situato proprio a ridosso del «detention camp» ad uso di una delle milizie più grosse di Tajoura, la milizia Daman, la stessa che gestisce, tra torture e degrado, anche il centro per migranti in accordo con la Guardia costiera libica, tant’è che il giornale Libyan Express lo chiama «Daman camp». La milizia in questione combatte insieme alle forze di Misurata in appoggio a Serraj, perciò non è escluso che i 44 migranti uccisi non fossero il vero target, ma solo vittime «incidentali», in quanto impossibilitate a fuggire dei raid di Haftar.

Non è neanche la prima volta che succede, ricorda Alfani di Medici senza Frontiere: il centro per migranti di Tajoura è stato colpito anche all’inizio di aprile e un’altra volta due mesi fa, quando per poco non è stato ucciso un bambino e una donna è rimasta ferita. Infatti a maggio l’Unsmil aveva chiesto al governo che i 600 detenuti in quel capannone fatiscente fossero evacuati, perché troppo vicini alla linea di fuoco.UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA, più che un danno collaterale. Il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni Flavio Di Giacomo sottolinea: «I migranti soccorsi in mare vengono trasferiti nei centri di detenzione dove la loro vita è a rischio, mentre continuano gli scontri,non dovrebbero essere rimandati in Libia». E così il portavoce dell’Lna di Haftar ha facile gioco a propagandare la disponibilità a farsi carico della’ccoglienza a Bengasi. «Le milizie di Serraj – dice al Mismari – li usano come scudi umani».

* Fonte: Rachele Gonnelli, IL MANIFESTO[1]

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