Somalia. Attentato a Mogadiscio: nel mirino l’inviato Onu, grave il sindaco

Somalia. Attentato a Mogadiscio: nel mirino l’inviato Onu, grave il sindaco

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Una donna kamikaze si è fatta esplodere alle cinque di mercoledì pomeriggio, a Mogadiscio. L’ennesimo attentato rivendicato dai terroristi somali Shabab nella capitale di cui solo ieri si è compreso la rilevanza politica.

Oltre i sei deceduti, di cui cinque sono funzionari pubblici di medio rango, tra i feriti gravi c’è il sindaco di Mogadiscio Abdirahman Omar Osman, operato e ancora in prognosi riservata in ospedale.

E per un soffio è scampato all’esplosione l’inviato speciale delle Nazioni unite nel Corno d’Africa, James Swan, che appena prima che la bomba esplodesse aveva avuto con il sindaco un incontro nel compound dove ha sede il municipio, non distante dal palazzo del presidente Farmayo, Villa Somalia.

Nella rivendicazione gli Shabab – segnala Garowe online – hanno precisato che proprio lui, Swan, era l’obiettivo dell’attentato. Diplomatico americano esperto di affari africani, Swan è stato nominato di recente – lo scorso 30 maggio – dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres a capo della missione Unsom in Somalia – come in Libia il tunisino Ghassam Salamé – e da allora si è fatto notare per l’insolito attivismo nel tentare di negoziare tra i diversi staterelli in cui è spaccata la Somalia attualmente e dare finalmente attuazione a un embrione di Stato federale in grado di fornire i servizi essenziali e proteggere le risorse del Paese, ora che gli studi preliminari hanno scoperto come suolo e mare siano ricchi di giacimenti di idrocarburi.

C’è un filo rosso che collega la guerra in corso in Libia e la continua instabilità di un’altra ex colonia italiana, la Somalia. Qatar e Turchia da una parte e Emirati e Arabia saudita dall’altra, invece di combattersi nel Golfo persico o in Siria, ora hanno spostato il loro tavolino da gioco in Africa e in particolare in due «Stati falliti» – Somalia e Libia – dove scorrazzano milizie pseudoprivate, passano rotte di contrabbandieri e trafficanti e si intersecano tubi di gasdotti, porti strategici e petroliere.

Il New York Times ha pubblicato lunedì scorso uno spaccato di questa realtà, venendo in possesso di un’intercettazione che chiama in causa il Qatar come manovratore occulto di alcuni fatti accaduti in Somalia nell’ultimo anno, in particolare l’attentato di Bosaso dello scorso 11 maggio e rivendicato (come gli altri) dalla nebulosa sigla jihadista degli Shabab.

L’audio risale a una settimana dopo la bomba: è la conversazione telefonica tra l’ambasciatore del Qatar in Somalia, Hassan Bin Hamza Hashem, e un uomo d’affari molto vicino all’emiro di Doha Tamim Bin Hamad al Thani: l’imprenditore Khalefa Kayed al Muhanadi. I due parlano degli interessi qatariori da difendere in Somala dall’influenza emiratina e l’imprenditore dice «ci sono i nostri amici dietro l’ultima bomba», senza che l’ambasciatore lo contraddica.

Il governo del Qatar, dopo l’uscita del Nyt, ha smentito ogni responsabilità nell’attentato, così come ha fatto il governo di Mogadiscio, considerato amico di Qatar e Turchia (che due anni fa ha costruito a Mogadiscio la più grande base militare della capitale somala e il più grande ospedale, intitolato all’ancora vivente e attuale presidente-sultano Recep Tayyp Erdogan).

A confermare l’autorevolezza dello scenario sono arrivati altri due soggetti: il primo è il portavoce del generale libico Haftar, Ahmed al Mismari e il secondo è il governo del Puntland lo Stato semi autonomo di cui Bosaso è la capitale commerciale. Nella telefonata finita sotto i riflettori, l’imprenditore – che ora dice di aver parlato a titolo personale e senza alcun rapporto con il governo del Qatar – si dilunga sui contratti governativi con la Dp World, una delle più importanti compagnie portuali del mondo con sede a Dubai, nel porto di Bosaso, che vorrebbe fossero trasferiti nelle mani del Qatar.

L’emiratina Dp World nel 2017 si era detta pronta a investire 336 milioni di dollari per ingrandire e dotare di infrastrutture d’avanguardia il porto di Bosaso – strategico per tutto il traffico che lambisce il Corno d’Africa verso lo stretto di Hormuz – in un contratto trentennale.

La stessa compagnia prevedeva di investire 440 milioni sempre per l’ammodernamento degli scali marittimi nel Somaliland, lo Stato più autonomo della costellazione somala che ambirebbe a diventare un’entità federale. A gestire il contratto trentennale su Bosaso sarebbe stata la filiale del colosso Dp World chiamata P&O Ports, il cui manager maltese, Paul Anthony Formosa, è stato trovato morto proprio mentre si stava dirigendo a Bosaso lo scorso 4 febbraio. Ucciso da uomini armati travestiti da pescatori-pirati.

E questo mentre in Libia il portavoce del generale pirenaico Haftar accusa Ankara e Doha di importare i combattenti dell’Isis in fuga dalla città siriana di Idlib e di rifornire di armi pesanti e droni le milizie libiche fedeli al premier di Tripoli Serraj boicottando così i tentativi di riconciliazione libica portati avanti dall’inviato speciale Onu Salamé.

* Fonte: Rachele Gonnelli, IL MANIFESTO



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