Di fronte al “golpe” indiano sul Kashmir il «nuovo» Pakistan sceglie la diplomazia

by Emanuele Giordana * | 7 Agosto 2019 10:23

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Uno dei paradossi della Storia vuole che sia stata proprio l’élite hindu del Kashmir negli anni Venti a volere per la regione uno statuto speciale che li garantisse dall’intrusione dei vicini cui Hari Singh, l’allora maharaja, vietò residenza, acquisto di terre e possibilità di accedere a cariche pubbliche.
In realtà Hari Singh, a capo di una comunità in maggioranza musulmana, avrebbe voluto un Kashmir indipendente ma dovette cedere alle pressioni di India e Pakistan che se lo volevano inglobare e scelse Delhi. A patto che lo status speciale della regione fosse conservato garantendo ai suoi sudditi un’indipendenza che, seppur pagata a caro prezzo, era rimasta tale sino a lunedì scorso.

Che la mossa di Delhi avrebbe rinfocolato le tensioni con Islamabad – che controlla il Nord del territorio conteso – era così scontato che Modi non solo deve averlo previsto ma – a giudicare dal suo piglio anti musulmano – deve averlo contemplato: anche per umiliare il vicino che, agli inizi dell’anno, quando i due Paesi sono stati sull’orlo di una quarta guerra, aveva saputo gettare acqua sul fuoco e risolvere con la diplomazia l’ennesimo casus belli.

Imran Khan, il giocatore di cricket prestato alla politica, si sta dimostrando un uomo di grande abilità e forse persino il riformatore di quel sistema asfittico che strangola dalla sua nascita il Pakistan: ostaggio di una burocrazia pachidermica e di un potente apparato militare, una delle tante eredità della Partition del 1947 quando il Raj britannico figliò India e Pakistan.

Ieri il premier, che ha chiesto che sulla questione intervenga il Consiglio di Sicurezza Onu, è andato a spiegare in parlamento la risposta a un atto definito «irrazionale» e «illegale», due termini persino blandi davanti alla decisione liberticida di Delhi. Così blandi che le opposizioni, capeggiate dalla Lega musulmana, ne hanno approfittato per metterlo in croce. Ma alla fine il parlamento è stato a sentire un ragionamento lineare e convincente.

Il Pakistan si sta adoperando per la pace nella regione, convinto che la fine della guerra in Afghanistan e la risoluzione delle vicende kashmire beneficerà tutti, in primis il Pakistan stesso. Ma, aggiunge Khan, quando «ho incontrato Modi» per garantirgli il pugno duro con i militanti estremisti «ho avuto la sensazione che non mi ascoltasse e che prendesse per debolezza le mie aperture».

Purtroppo, conclude Khan, quel che è successo per il Kashmir non è che la messa in pratica del manifesto del partito di governo, padrino di un’«ideologia razzista». Che – dice Khan – potrebbe portare a una «pulizia etnica» in Kashmir e a colpirci di nuovo. «Risponderemo».

Fa capire però che, ancora una volta, non è la strada dello strike quella che adesso il Pakistan deve scegliere. Lascia intendere che forse questa è l’occasione buona per essere presi sul serio in un momento in cui la democrazia più popolosa del pianeta – come si suole chiamare l’India – ha commesso un atto che non coinvolge solo il Pakistan ma il mondo intero, l’Onu, grandi Paesi come Cina e Stati uniti che non possono vedere che con apprensione l’escalation.

In altri tempi il gesto di Modi avrebbe favorito azioni terroristiche in Kashmir o in territorio indiano: azioni condotte col beneplacito dei servizi pachistani e con una rete di protezione di gruppi sconfessati a parole ma coccolati in segreto.

Anche se non sono da escludere, le cose ora potrebbero cambiare pur se la rete di connivenza e protezione degli oltranzisti è resistente. Khan però vuole giocare a carte scoperte, non «in segreto». È una scelta in controtendenza. Forse per questo ancor più in salita.

* Fonte: Emanuele Giordana, IL MANIFESTO[1]

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