El Paso. Il suprematismo fa strage a volto scoperto

El Paso. Il suprematismo fa strage a volto scoperto

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Delle 22 vittime accertate di El Paso, sette erano cittadini messicani, e sette dei feriti erano anche loro in visita da Ciudad Juarez, quel fatale sabato mattina. In numerosi video postati sui social è lo spagnolo che prevale nelle esclamazioni di panico e angoscia. Ieri il governo di Andres Manuel Lopez Obrador ha comunicato che chiederà l’estradizione dell’autore della strage.

È NORMALE che nel fine settimana tanti avventori avessero attraversato il confine che divide le due città o che, a seconda dei punti di vista, taglia di netto questa unica metropoli bi-nazionale, del tutto simbiotica e co-dipendente dai tempi in cui era portale commerciale sorto attorno alla missione gesuita. Accanto agli avventori giunti all’ipermercato Walmart per approfittare dei saldi del rientro a scuola (l’anno scolastico inizia lunedì prossimo), c’erano tanti shopper «frontalieri», che ogni giorno passano il confine attratti dai prezzi stracciati dei mega-distributori norteñi.

In realtà El Paso – come molte località del Southwest, comprese grandi metropoli come Los Angeles – è una città a maggioranza ispanica. Gli stati «di frontiera» affacciati sul Rio Grande compongono un Paese «terzo», un luogo bi-nazionale, socialmente, economicamente e linguisticamente compenetrato. Una commistione raccontata dalla toponimia spagnola, dalla musica, dallo street food, dall’arte chicana e ora dai serial bilingui su Netflix, la generazione Latinx. Qui sono labili e futili le distinzioni e la categorizzazione nette mentre è ben fondato il detto popolare: «non abbiamo passato il confine è il confine che ha passato noi». Questo paese meticcio era un obbiettivo naturale per l’attentatore che nel manifesto «ideologico» ha dichiarato di voler «ridimensionare il blocco elettorale ispanico» e ripreso la terminologia dell’«invasione» dei comizi di Trump. Un anatema da suprematisti del trumpismo, quelli che l’hanno ispirato. Steve Bannon, teorico della superiorità manifesta della civiltà giudeo-cristiana, e Stephen Miller – affettuosamente noto come «Santa Monica nazi» – hanno articolato la decostruzione dell’integrazione culturale del Paese come chiave del ripristino del primato bianco. Il loro Blut und Boden a stelle strisce rappresenta un’inversione radicale di rotta della narrazione nazionale prevalsa per oltre 70 anni.

QUELLE SETTE PERSONE quindi erano venute dalla città che all’apice della guerra della droga aveva nomea di «più pericolosa del Messico» per morire in un centro commerciale nell’America etnicamente militarizzata – con il vicino di casa pullulante di armi da fuoco e ora anche in preda a un frenetico delirio xenofobo aizzato dal capo di Stato. Prendendone atto, il governo messicano, dopo aver capitolato sull’interdizione dei migranti centro-americani chiesta da Trump, ha annunciato un ricorso al diritto internazionale per esigere che venga tutelata la sicurezza dei propri cittadini in America.

Mentre repubblicani e Casa bianca balbettano di igiene mentale e di videogiochi violenti, almeno al governo di Amlo è chiara la causale diretta costata la vita alle vittime di El Paso. Sin dai «messicani stupratori» della prima campagna Trump, il progetto nazional-populista è stato predicato sull’escalation dell’astio etnico e razziale come cinico grimaldello politico. Il muro, l’interdizione ai musulmani, poi a profughi e richiedenti asilo. L’emergenza prefabbricata sul confine e la crudeltà «dissuasiva» della separazione famigliare, l’internamento dei bambini e 24 immigrati morti in detenzione nei due anni di questa amministrazione.

Ognuno, un ulteriore strappo al tessuto sociale che Trump sta incoscientemente ma intenzionalmente lacerando. Al medesimo scopo servono le retate – vere o annunciate – atte a mantenere un livello di panico diffuso nei barrios, lasciando in subalternità la minoranza ispanica, anche per neutralizzarla e conservare l’egemonia politica bianca e conservatrice. Lo strumento è quello più sperimentato: fomentare odio e paranoia nella base, secondo la nota formula per cui il razzismo è inversamente proporzionale al livello di integrazione; un’ossessione degli hinterland più bianchi, al contrario delle città multietniche.

NON È UN CASO che Trump stia lanciando la campagna di rielezione esasperando la spaccatura rurale-urbana. Gli attacchi a San Francisco, Los Angeles, Baltimora come luoghi disgustosi e «infestati», «impuri» – proprio come i distretti delle parlamentari più progressiste (e meno bianche) – segnalano una nuova escalation nella strategia della spaccatura, pur nel momento in cui si palesano sempre più gli effetti collaterali nella instabile psiche nazionale, in cui l’ondata di terrore suprematista sta diventando uno tsunami.

Trump è sempre più miccia in una polveriera dai fin troppo noti trascorsi razzisti. Nella sua Casa bianca si aggirano apertamente i fantasmi di Joe McCarthy e George Wallace, uomini che in epoca moderna hanno saputo evocare il peggio dell’America. I loro eredi stanno ora insanguinando il Paese e con 15 mesi di campagna elettorale davanti, non abbiamo visto ancora niente.

* Fonte: Luca Celada, IL MANIFESTO

photo: Fibonacci Blue [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]



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