Il premier indiano parla di diritti, ma il Kashmir è ridotto al silenzio

by Matteo Miavaldi * | 9 Agosto 2019 19:16

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«Mi congratulo con la popolazione del Jammu e Kashmir, del Ladakh e dell’intera nazione. Quando certe cose sono lì da sempre presumiamo non possano mai cambiare. Questo è stato per l’articolo 370».
Così, alle otto di ieri sera, il primo ministro indiano Narendra Modi ha aperto il suo discorso alla nazione sulla modifica dell’articolo che da 70 anni sanciva lo statuto speciale e, tecnicamente, temporaneo dello Stato del Jammu e Kashmir.

Per effetto della revoca, confermata dal parlamento federale indiano, lo Stato è stato diviso in due union territories amministrati da New Delhi: il Jammu e Kashmir e il Ladakh. Una retrocessione inedita nella storia dell’India, fondata su princìpi federalisti che la destra induista al governo, con il Kashmir, ha di fatto stravolto.

Per Modi il nuovo assetto garantirà sviluppo, posti di lavoro e diritti per tutti, l’inizio di «una nuova era». Nel frattempo, la popolazione kashmira concludeva il quarto giorno di blackout delle comunicazioni e divieto di assembramento, costretta a una condizione tristemente familiare per l’unico (ex) Stato indiano a maggioranza musulmana: ridotta al silenzio, mentre in India tutti parlano in vece loro.

Gli unici dispacci trasmessi dai media nazionali accreditati dal governo federale raccontano una situazione «tranquilla» per le strade, mandando in onda un siparietto idillico tra il security advisor di Modi, Ajit Doval, e un gruppo di locali ripresi mentre si godono un tè speziato per strada.

Fuori dalla cerchia dei media filo-governativi, è difficilissimo reperire informazioni. Un manipolo di giornalisti locali, facendo fronte alla chiusura coatta delle proprie redazioni e tagliati fuori dalla linea telefonica e dai social network, è riuscita a far trapelare articoli salvati su pennette usb, affidate a chi, in aereo, lasciava la regione.

Fahad Shah, direttore e fondatore del settimanale Kashmirwalla, in un articolo pubblicato dal magazine Time, dà una forma e un colore alla «tranquillità» del Kashmir: strade deserte presidiate da checkpoint militari, accesso a cure mediche e ambulanze pressoché nullo, giovani kashmiri ricoverati in ospedali per ferite da fucili a pallettoni utilizzati dalle forze di sicurezza indiane per dissuadere le proteste.

Le autorità hanno arrestato centinaia tra politici e attivisti, compresi leader politici pro-India come Omar Abdullah e Mehbooba Mufti, provenienti da famiglie che, spiega Shah, «hanno rappresentato il governo indiano, incoraggiando la popolazione a votare alle elezioni promettendo sicurezza e il mantenimento dello statuto speciale».

Una situazione che «preoccupa profondamente le Nazioni unite», parafrasando le parole pronunciate ieri del portavoce dell’Ufficio per i Diritti umani dell’Onu.

L’iniziativa unilaterale del governo Modi ha avuto immediatamente ripercussioni sui rapporti diplomatici regionali, essendo il Kashmir tecnicamente territorio conteso tra Cina, India e Pakistan. Islamabad, mercoledì, ha espulso l’ambasciatore indiano, annunciando di voler declassare i rapporti diplomatici con New Delhi se Modi non riconsidererà la revoca dell’articolo 370.

Critiche anche da Pechino, attraverso l’ambasciatore cinese in Pakistan Yao Jin, che sempre mercoledì ha condannato la revoca unilaterale dello statuto speciale del Kashmir. In risposta a Cina e Pakistan, New Delhi ha chiarito che per l’India il caso del Kashmir è un «affare interno». Le chance di una retromarcia di Modi sotto pressioni esterne al momento sembrano francamente nulle.

* Fonte: Matteo Miavaldi,  IL MANIFESTO[1]

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