La manovra della Lega: soldi a ricchi e imprese
Uno – forse il secondo per importanza – degli argomenti per fare il «governo istituzionale» non esiste già più. L’«emergenza spread» era una fakenews. Alimentata venerdì scorso da pro austerity e «giornaloni» si è rilevata tale alla riapertura settimanale dei mercati. I titoli di Stato italiani a dieci anni hanno infatti concluso gli scambi sul mercato telematico con rendimenti scesi di dieci punti base e il differenziale con la Germania ha frenato a quota 229 finale contro i 238 di venerdì.
Stessa musica a piazza Affari. I politici che venerdì si sono affrettati a fare dichiarazioni allarmate per «i 15 miliardi di capitalizzazione bruciati in un giorno» ieri si sono dovuti zittire: l’indice Ftse Mib della Borsa di Milano ha infatti ceduto un modesto 0,3% in linea con gli altri listini europei.
L’altro argomento – molto più rilevante – per non andare ad elezioni è l’aumento dell’Iva. Senza trovare i 23 miliardi necessari per disinnescare gli aumenti automatici, dal primo gennaio l’imposta sul valore aggiunto ordinaria passerebbe dal 22 al 25,2% mentre quella ridotta dal 10 al 13%.
Se sono sicuramente esagerate le stime del Sole24Ore che parlano di un aggravio di 541 euro in più all’anno a famiglia, non può essere contestato l’effetto negativo sulla domanda interna che l’aumento della maggiore delle tasse indirette – e che come tale colpisce tutti senza distinzione censitaria – avrebbe nel 2020.
Per coprire le clausole di salvaguardia la proposta leghista è quella di aumentare il deficit al 3% andando allo scontro con l’Europa.
Ma il problema di fondo è – più che i parametri europei – la natura della manovra leghista. Usare i 23 miliardi “liberati” dall’aumento dell’Iva per puri investimenti pubblici darebbe una svolta keynesiana all’azione di governo.
La Lega invece anche ieri dopo la riunione dei gruppi parlamentari ha confermato di voler usare quei miliardi in modo regressivo e iper liberista per uno «shock fiscale».
«La manovra economica per il 2020 è pronta, andiamo al voto e con la fiducia degli elettori la attueremo puntando su flat tax al 15% per pensionati e lavoratori, saldo e stralcio per le imprese in crisi aziendale, abolizione della Tasi», dice il sottosegretario all’Economia Massimo Bitonci. «Toglieremo il freno a mano allo sviluppo mettendo al centro della manovra le imprese», rafforza il messaggio il suo omologo Massimo Garavaglia.
Ma i conti rischiano di non tornare nemmeno così. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) gli effetti di trascinamento sul 2020 dei risparmi concordati a giugno con l’Ue per evitare una procedura d’infrazione verrebbero mangiati da una crescita che si preannuncia ben inferiore allo 0,8% stimato nel Def.
Servirebbero poi almeno tre miliardi per le spese indifferibili. Il finanziamento della flat tax, anche incamerando gli 80 euro del «bonus 80 euro», richiederebbe 5-6 miliardi. L’abolizione della Tasi costerebbe oltre un miliardo. Dunque oltre 30 miliardi da trovare, mentre sul fronte delle risorse dal «saldo e stralcio» il direttore generale dell’Agenzia delle Entrate Antonino Maggiore aveva indicato a giugno una cifra fra uno e poco più di due miliardi. L’Upb stima 2,4 miliardi di risparmi nel 2020 dal minor tiraggio di «quota 100». Il resto – tolti questi quasi cinque miliardi di risorse – andrebbe cercato dai tagli di spesa. Insomma, ci sarà un’altra spending review, a partire dalla sanità già falcidiata dall’autonomia differenziata pro Nord.
* Fonte: Massimo Franchi, IL MANIFESTO
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