Amazzonia. «Il polmone del mondo sta bruciando con il nostro futuro»

Amazzonia. «Il polmone del mondo sta bruciando con il nostro futuro»

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 «Sono indispensabili politiche pubbliche per la protezione della foresta e per i diritti dei loro abitanti come dei piccoli produttori agricoli e dei poveri. Ma molti parlamentari sono foraggiati dall’agribusiness, e questo spiega il loro voto per l’abolizione di diverse aree protette»

«Lo sforzo per spegnere il rogo dell’Amazzonia è prioritario. Ma che cosa succederà poi nelle aree devastate? Non vogliamo che la foresta continui a essere soppiantata dal business della soia, dei pascoli, delle monocolture arboree, delle miniere».Pablo Neri ha 24 anni e il suo impegno per il clima è davvero in prima linea. Vive nello Stato del Pará, parte dell’Amazzonia legale. Là 514 famiglie coltivano nell’assentamento (insediamento) Palmaris Dois, organizzato dal Movimento Sem Terra-Mst.

Pablo è stato invitato a Roma dal Meccanismo della società civile (Csm) che rappresenta piccoli produttori agricoli e popoli indigeni nel Comitato per la sicurezza alimentare (Cfs) della Fao.

Gli incendi riguardano anche la vostra zona?

Dal nostro assentamento vediamo le montagne bruciare. Siamo intossicati dal fumo e dalla tristezza. Il polmone del mondo se ne sta andando insieme al futuro dei nostri popoli. Gli incendi che hanno incenerito il Cerrado, il secondo grande bioma dell’America del Sud, divorano l’Amazzonia per le necessità del sistema del business. Viviamo e coltiviamo vicino a un’area formalmente protetta, nella foresta nazionale di Carajas, che però è molto ambita per le sue ricchezze minerarie, oltre che dal business agricolo.

È riconosciuto l’impegno del Movimento Sem Terra in progetti di rigenerazione naturale assistita (Rna). L’agroecologia in zona amazzonica si combina con la protezione della foresta primaria?

La Costituzione brasiliana imporrebbe di rispettare la funzione sociale della terra: produrre alimenti. La terra per la quale abbiamo lottato era occupata da un latifondista che l’aveva devastata. Per esempio il latifondo aveva soppiantato l’utile castanheira a favore dei pascoli. Noi l’abbiamo reintrodotta nei decenni e stiamo raccogliendo i suoi frutti. C’è molto lavoro umano nella foresta e intorno. Coltiviamo e insieme ripristiniamo aree degradate, e i sistemi idrici. Il Mst è impegnato a non riprodurre nemmeno su piccola scala il tragico modello dell’agribusiness. Solo il binomio foreste e agroecologia è durevole. Il resto trasforma le terre, prima o poi, in deserti.

A proposito. Il Mst è impegnato contro le piantagioni in monocoltura, in particolare di eucalipto. Parlate di «deserto verde».

Contadini e popoli indigeni realizzano produzioni arboree da tempo immemorabile ma in modelli integrati nella foresta e nel quadro di sistemi di produzione e consumo locali (è la gestione ne protezione della foresta da parte della comunità). È completamente diverso dalle piantagioni arboree industriali. Un nostro slogan è: «L’eucalipto non si mangia e non è foresta». Grandi imprese ne coltivano migliaia di ettari, nel Pará e nel Maranhao. Questo deserto verde, magari transgenico, minaccia le foreste, la loro biodiversità e i loro prodotti utili, sequestra enormi quantità di acqua dal sottosuolo, inquina le falde, impoverisce le comunità, mette in pericolo l’impollinazione nelle aree agricole limitrofe e alla fine la sicurezza alimentare. Il legname, poi, è utilizzato anche per la produzione di ghisa. Un collegamento promiscuo e criminale…

Anche dal punto di vista dei diritti umani in senso stretto?

Sì. In queste catene produttive disastrose ecologicamente e socialmente, si annida ad esempio lo sfruttamento infantile; il Ministero del lavoro ha ricevuto denunce circa l’uso di bambini nella produzione di carbonella. E non si contano i conflitti con le comunità. Anche in Colombia, dove diversi leader indigeni e contadini sono stati assassinati su mandato di gruppi privati legati alle piantagioni di eucalipto, gruppi che avanzano a scapito della foresta, ben protetti dal potere politico. E in Brasile, chi compra la soia, per esempio, come Bunge e Cargill, costruisce anche grandi porti per l’export e sloggia le comunità rivierasche.

Ci sono speranze?

Sono indispensabili politiche pubbliche per la protezione della foresta e per i diritti dei loro abitanti come dei piccoli produttori agricoli e dei poveri. Ma molti parlamentari sono foraggiati dall’agribusiness, e questo spiega il loro voto per l’abolizione di diverse aree protette. Intanto il governo incoraggia la criminale espansione della frontiera agroindustriale a scapito del polmone della Terra.

* Fonte: Marinella Correggia, il manifesto



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