Con Greta a New York, le voci dei teenagers for future
NEW YORK. Non possiamo vivere in un mondo dove una sedicenne deve attraversare l’Atlantico in barca per avere l’attenzione di tutti sulla crisi climatica. Questo è uno degli slogan ripetuti in coro dai ragazzi attivisti che, insieme a Greta Thunberg, si sono radunati il 30 agosto davanti alla sede delle Nazioni Unite.
È il primo sciopero del clima dopo che la teenager svedese è approdata sulle sponde di Manhattan. Greta arriva a New York dopo 15 giorni di traversata sull’oceano Atlantico su un yatch da regata ad emissioni zero che utilizza pannelli solari e generatori a turbina subacquei. Per conto di scienziati, lo yacht Malizia II raccoglie dati sull’acidificazione degli oceani, un effetto delle emissioni di carbonio.
Nel pomeriggio piovoso del 28 agosto, le vele nere della barca sono appena visibili tra i grattacieli ingombranti di Wall Street, il cuore del sistema finanziario globale che con i suoi investimenti nelle lobby di carboni fossili è stato da subito nel mirino degli attivisti climatici.
Al suo arrivo, a ricordarci che Manhattan è una delle aree a rischio per quanto riguarda l’innalzamento del livello dei mari, gli attivisti hanno ripetuto cantando «sea levels are rising, and so are we», i mari si stanno sollevando, ed anche noi.
Tra meno di un mese, il 23 settembre, la sedicenne parlerà al summit sul clima delle Nazioni Unite, a cui seguirà una settimana di scioperi globali. Gli scioperi climatici del venerdì, i famosi Fridays for Futurenascono un anno fa, quando Greta (allora quindicenne) saltò la scuola per protestare davanti al Parlamento svedese.
Poco meno di tre mesi dopo, a novembre 2018, più di 17.000 studenti hanno scioperato in 24 città. Non è stato sempre un percorso in discesa per Greta che, come noto, soffre della sindrome di Asperger, ed è nel tempo diventata bersaglio di detrattori. Più volte è stata criticata, sminuita o liquidata da giudizi vigliacchi e superficiali.
L’ultima critica riguarda la presenza di una bottiglia di plastica sullo yatch, visibile in una foto scattata durante la traversata. È il rovescio della medaglia della popolarità di Greta. Ogni azione, ogni mossa, ogni parola dovrà essere pesata.
Ma perché ci accaniamo contro chi, in buona fede, vuole aiutare a risolvere un problema che è di tutti? Perché non lasciamo loro il diritto di poter sbagliare? Chi nella nostra società guadagna potere di influenza viene sempre delegittimato.
Accusare un’adolescente che vuole salvare il mondo di essere un’ipocrita perché attraversa l’oceano Atlantico su una barca e si porta dietro una bottiglia di plastica (probabilmente nemmeno ad uso personale considerando che spesso la si vede in giro con la borraccia), è come scegliere di bocciare un alunno perché un giorno non ha fatto i compiti: ottuso e sterile.
Venerdì, davanti al grattacielo dell’Onu, lo sciopero era guidato da altre ragazze, alle quali Greta ha dato manforte in silenziosa presenza. Una di loro, Xiye, è un’adolescente di origini messicane la cui famiglia è stata costretta a lasciare la propria casa a causa di un’alluvione che ha recato danni al suo paese natio.
Xiya ha origini indigene e dichiara che queste popolazioni da sempre hanno voluto tutelare la propria terra, invece di sfruttarla. Le parole di Xiya sono in caduta libera, non riesce a trattenere l’ardore e nemmeno il disappunto.
Non vengono pronunciate per caso, però, le sue parole, poiché poco dopo una donna indigena entra in scena nel cerchio dei ragazzi. Tiene per mano una bambina e con l’altra un cartello che dice: proteggete madre natura e le popolazioni indigene.
Nell’aria c’è odore di attesa, si percepisce che i media sono tutti lì per sentir Greta parlare. Eppure lei rimane in silenzio, a malapena si unisce ai cori degli altri ragazzi che ripetono all’infinito i loro slogan ambientalisti. Qualcuno dalla folla urla un paio di volte «Greta, vogliamo sentirti parlare!» e accanto qualcun altro risponde, «non si tratta solo di Greta, sai». Ed è vero. Non si tratta solo di lei.
Sono centinaia i ragazzi che tengono viva la protesta, e tra loro c’è anche una bimba di circa 11 anni che con una vocina squillante si fa sentire: «Noi bambini non dovremmo essere qui. Siamo qui perché voi adulti non avete saputo affrontare questa crisi. Siamo qui perché i politici hanno messo i loro interessi economici davanti al nostro futuro».
I ragazzi non hanno microfoni. «Sarete costretti ad ascoltarci», dice una di loro. Si inventano un modo per rimediare alla mancanza dell’amplificatore; si chiama «mic check» o prova microfono. Chi ha la parola pronuncia una frase alla volta e poi fa una pausa; gli altri ripetono in coro ciò che ha detto così che tutti possano sentire. Un microfono umano, per così dire. È un’idea semplice ma efficace, un’idea possibile solo con l’inventiva della gioventù. Sanno che le loro voci si amplificheranno a vicenda.
Gli attivisti esortano tutti i presenti a lavorare insieme per contrastare il cambiamento climatico. Non c’è un «noi» e un «voi», bisogna lottare insieme: giovani e «adulti». Ma sono gli adulti a dover fare qualcosa. Nel suo discorso per TedX a novembre 2018 Greta ha detto: «Forse (in futuro) mi chiederanno di voi, degli adulti del 2018. Magari chiederanno perché non avete fatto niente quando eravate ancora in tempo».
Ed il tempo sta scadendo. Secondo il rapporto dell’Ipcc del 2018 abbiamo 12 anni per invertire la rotta e limitare i danni del cambiamento climatico. L’obiettivo da raggiungere? Una diminuzione delle emissioni del 45% entro il 2030, per poi arrivare a zero emissioni entro il 2050. Lo scenario alternativo? La devastazione.
«A tutti voi che ogni giorno scegliete di guardare da un’altra parte, perché sembrate più spaventati dai cambiamenti che potrebbero prevenire una catastrofe climatica che dalla catastrofe climatica stessa. Forse il vostro silenzio è la cosa peggiore di tutte», disse Greta durante la marcia per il clima a Stoccolma di settembre 2018.
Eppure, a volte, il silenzio è necessario, soprattutto quando le parole franano, quando anche lo slogan più battagliero, ripetuto mille volte, può trasformarsi in una scalata inconcludente. Alla fine, la protesta diventa muta. Non urla più nessuno, non si applaude, non si canta più. I ragazzi non aprono bocca, alzano il braccio e mettono le dita a «V» in segno di pace.
Anche Greta resta in silenzio, ma con il braccio abbassato; non fa nemmeno il segno di pace. È al centro, fra tutti, e appoggiandosi al proprio cartello, marchio di fabbrica della sua lotta con la scritta in svedese «sciopero scolastico per il clima», si guarda attorno come se fosse ancora sullo yacht in mezzo all’oceano, dove il mondo sembra ancora intatto. Ma Greta sa che non possiamo permetterci questa illusione, e la sua voce la conserva per il summit sul clima del 23 settembre.
* Fonte: Stella Levantesi, IL MANIFESTO
Foto di Kevin Snyman da Pixabay
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