Ucciso perché si rifiuta di tornare nei centri di detenzione in Libia

Ucciso perché si rifiuta di tornare nei centri di detenzione in Libia

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E’ la testimonianza drammatica di come opera davvero la cosiddetta Guardia costiera libica e di cosa accade ai migranti che vengono riportati nel Paese nordafricano. Un giovane di origine sudanese è morto giovedì dopo essere stato ferito allo stomaco dai colpi sparati da uomini armati perché, insieme ad altri migranti, si rifiutava di tornare in un centro di detenzione dopo che il gruppo era stato intercettato e catturato nel Mediterraneo.

Tutto è avvenuto sulla spiaggia della base navale di Abu Sitta, non distante da Tripoli e che in passato ha ospitato il premier libico Fayez Al Serraj. A denunciare la morte del giovane sono stati invece gli operatori dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, presenti sul posto.

Fermato dalla Guardia costiera libica mentre con un gommone cercava di raggiungere l’Italia, il gruppo di 103 migranti, tra quali anche donne e bambini, è stato riportato indietro e doveva essere smistato nei vari centri di detenzione gestiti dal governo di Tripoli. Gli stessi centri, come denunciato da numerose testimonianze, tristemente famosi per le continue violazioni dei diritti umani e per le violenze subite dai migranti.

Consapevoli di cosa li aspettava, i migranti si sono ribellati rifiutandosi di obbedire agli ordini degli uomini armati incaricati di gestire il trasferimento, che hanno cominciato a sparare. Un colpo ha ferito il giovane sudanese allo stomaco. Soccorso dai medici dell’Oim, è morto poco dopo. «Una tragedia per certi versi inevitabile» secondo Leonard Doyle portavoce dell’Oim. «L’uso di pallottole contro civili disarmati e vulnerabili, uomini, donne e bambini, è inaccettabile in qualsiasi circostanza e pone allarmi sulla sicurezza dei migranti e dello staff umanitario».

Per l’Organizzazione che fa capo all’Onu la morte del giovane migrante deve servire come «severo promemoria delle gravi condizioni in cui si trovano i migranti raccolti dalla Guardia costiera libica dopo aver pagato i trafficanti per essere portasti in Europa, solo per poi ritrovarsi nei centri di detenzione dove ci sono condizioni disumane». L’Oim ha infine chiesto alle autorità libiche di aprire un’inchiesta «per trovare i responsabili e consegnarli alla giustizia».

Preoccupazione per quanto accaduto è stata espressa anche dalla Commissione europea. In Libia – ha spiegato una portavoce – la «situazione non è cambiata recentemente» e l’Ue continua a lavorare per la «chiusura dei centri e per mettere in piedi strutture che siano in linea con gli standard internazionali». Il responsabile migrazioni dell’Arci Filippo Miraglia ha chiesto invece di mettere fine agli accordi con la Libia: «Continuare a sostenerli – ha spiegato -, finanziando le milizie che gestiscono il traffico di essere umani, vuol dire essere responsabili di crimini contro l’umanità».

Intanto alle autorità di Tripoli viene ancora permesso di indicare quelli libici come porti sicuri. E’ stato così anche per la Ocean Viking delle ong Sos Mediterranée e Medici senza frontiere che ovviamente si è rifiutata di obbedire all’indicazione ricevuta. Ieri la nave ha chiesto a Italia e Malta l’indicazione di u porto sicuro, senza però ricevere risposta. le autorità della Valletta hanno accettato di far sbarcare solo 36 migranti salvati nell’area Sar maltese, lasciando a bordo i restanti 182. «Il governo sta lavorando per trovare una soluzione che consenta lo sbarco di queste persone. Vedremo nelle prossime ore», ha assicurato ieri il ministro dei Trasporti Paola De Micheli.

* Fonte: Leo Lancari, il manifesto



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