La Cassazione sentenzia: «Il mondo di mezzo non fu mafia»

La Cassazione sentenzia: «Il mondo di mezzo non fu mafia»

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«Mafia Capitale» non era una mafia. Lo ha stabilito la sesta sezione penale della corte di cassazione, ribaltando la sentenza d’appello sull’associazione guidata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Tutto era cominciato quasi cinque anni fa. Era il 2 dicembre del 2014 quando un’indagine della procura guidata da Giuseppe Pignatone, oggi in procinto di trasferirsi alla magistratura vaticana, aveva prodotto decine di arresti e centinaia di indagati. Il coinvolgimento dei politici appariva trasversale in nome di un assunto che pareva concepito apposta per ingigantire la leggenda di Massimo Carminati, «il Nero» del Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo, del film di Michele Placido e della serie televisiva che ne aveva tratto Stefano Sollima.

Il riferimento pop non deve apparire forzato, visto che la corposa ordinanza di arresti che ha dato il via a Mafia Capitale cominciava proprio parlando del potenziale mitologico di quelle narrazioni. I giudici ammettevano che la loro dissertazione muoveva da grammatiche aliene alle fattispecie di reato e ai codici penali. Si riferivano alla storia e alla rappresentazione della Banda della Magliana, ai rapporti tra fascisti e servizi e all’aura di onnipotenza e immortalità che circola attorno a Massimo Carminati. I magistrati sottolineavano «quanto esse abbiano contribuito a rafforzare il carisma e l’immagine criminale» di Carminati. Citavano intercettazioni nelle quali in effetti il (presunto) boss dell’organizzazione discettava delle fiction tratte da quella storia. In una di queste, addirittura, cedeva al proprio ego e faceva valere tutto il suo peso intimidatorio chiamando il causa il suo personaggio televisivo nel corso di una conversazione con l’ignaro tecnico di un call center di un noto operatore di telefonia mobile. Già anni prima che questi miti si diffondessero era praticamente impossibile frequentare un bar di periferia senza che qualcuno degli avventori, dandosi un tono ma abbassando la voce, ti dicesse di avere avuto a che fare con qualcuno della «Banda». Pignatone e i suoi mettevano insieme una serie di condotte illegali promosse da Carminati e Salvatore Buzzi, ex detenuto poi impegnato con la cooperativa 29 giugno che ha preso le mosse dal nobilissimo impegno a favore di chi usciva dal carcere. Questi affari riguardavano soprattutto la creazione ad hoc di «emergenze sociali» attorno alle quali offrire i propri servizi in affidamento diretto, cioè senza passare per gare d’appalto.
Carminati si portava dietro il mondo e gli spettri della borghesia nera di Roma, dei servizi e dell’estrema destra, che ha cercato di tenere insieme tra allusioni e ricostruzioni di comodo in una deposizione praticamente unica risalente all’aprile di due anni, reperibile online grazie all’archivio di Radio Radicale.

Il «Mondo di mezzo» evocato da Carminati in un’altra intercettazione aveva finito per prestare il marchio all’operazione. Ancora una volta, «il Nero» rivelava passione per l’epica e capacità di sintesi spiegando così l’attività illegale nella quale lui e i suoi si erano specializzati: «Ci sono i vivi sopra e i morti sotto – argomentava Carminati – Un mondo in cui tutti si incontrano». Questa rete di intermediazione tra affari, corruzione e soprusi costituiva davvero un nuovo modello di mafia? Era questo l’oggetto del contendere. Dal Palazzaccio in riva al Tevere, definito da un eminente storico dell’arte «massa di travertino in preda al tetano», smentiscono l’assioma della procura. La corte suprema distingue Mafia Capitale in due associazioni a delinquere distinte, che in più di un’occasione hanno incrociato i loro interessi illegittimi. Tutto ciò non rientra nei parametri stabiliti dal 416 bis, che definisce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. La sentenza rimanda a un nuovo giudizio d’appello che servirà, in funzione di questa decisiva definizione, a ricalcolare le pene di Carminati, Buzzi e degli altri dodici imputati.

* Fonte: Giuliano Santoro, il manifesto



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