Putin annuncia: ritiro curdo ultimato, Trump si prende il petrolio

Putin annuncia: ritiro curdo ultimato, Trump si prende il petrolio

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Dalla polveriera del Medio oriente spunta il nuovo ordine che più parti, potenti e meno potenti, cercano di dare alla regione. Lungo la frontiera tra Turchia e Siria, sgomberata da Ankara e dai suoi mercenari al prezzo del sangue dei curdi, si materializza lo schema delineato delle intese raggiunte da Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin. Non devono trarre in inganno i combattimenti e il fuoco di artiglieria turco contro postazioni dell’esercito siriano nel villaggio di confine di Al Assadiya costato ieri la vita di sei militari di Damasco. Nelle stesse ore in cui risaliva la tensione alla frontiera – teatro dal 9 ottobre dell’offensiva turca “Fonte di pace” – facendo temere, in verità solo ai media occidentali, l’inizio di uno scontro militare diretto tra Turchia e Siria, Mosca si affrettava a far sapere che il ritiro curdo dalla “zona cuscinetto” che Ankara vuole imporre in territorio siriano è stato completato in anticipo rispetto alla tabella di marcia.

Ad annunciarlo, con soddisfazione, è stato il ministro della difesa russo, Sergej Shoigu. «Il ritiro delle truppe curde dalla zona di sicurezza è stato completato in anticipo rispetto ai tempi inizialmente previsti: nell’area, oltre alle forze di Damasco, sono presenti anche militari russi», ha precisato il ministro. I curdi rispettano gli accordi per evitare il peggio ma a rimetterci sono loro. Erdogan frenando la sua guerra ha ottenuto da Putin quello che temeva di doversi guadagnare riportando in patria le bare di parecchi soldati turchi. Ha avuto una zona cuscinetto non proclamata in territorio siriano e che le bandiere delle Fds e delle Ypg curde non sventolino più sul confine, sostituite ora da quelle della Siria. Non solo. Le forze armate turche pattuglieranno assieme a quelle della Russia un’area fino a dieci chilometri all’interno del territorio siriano.

Damasco storce il naso. L’alleato Putin ha assecondato i desideri dell’odiato Erdogan a spese dell’integrità territoriale siriana che pure diceva di voler tutelare. Inoltre la Siria dovrà accettare il rispetto dell’intesa di Adana, siglata nel 1998, in base alla quale le forze armate di Ankara possono effettuare raid “anti-terrorismo” fino a 10 chilometri all’interno del territorio siriano. Ma il leader russo ha anche bloccato Erdogan e obbligato i curdi a fare i conti con la realtà imposta dai più forti. E se al confine saranno i pattugliamenti congiunti turco-russi a monitorare il rispetto delle intese, più a sud sarà proprio l’esercito siriano a garantire che le Ypg non tornino alla frontiera. Le unità combattenti curde dovranno anche lasciare le città di Manbij e di Tel Rifat. A questo punto è chiaro che il prossimo obiettivo del Cremlino sarà portare i due nemici, Erdogan e il presidente siriano Bashar Assad, a un vertice che sancisca la normalizzazione dei rapporti tra leader che fino a qualche tempo fa si sarebbero accoltellati. Sarebbe uno schiaffo, l’ennesimo, alla politica dell’Amministrazione Trump in Siria. Ma gli Stati uniti davvero sono stati messi fuori gioco in Siria dalle scelte confuse di Trump e dall’offensiva diplomatica russa? Non è proprio così.

Washington, annunci di Trump a parte, in Siria ci resta. E non solo per mettere a segno colpi di teatro come l’eliminazione fisica del capo dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi, riferita come un copione cinematografico dal presidente americano. Si sono conosciuti altri particolari sul raid della Delta Force. Si è detto che al Baghdadi, scoperto a causa della sua (presunta) passione per il calcio, si sarebbe fatto esplodere insieme ai suoi tre figli tra lacrime e sangue. Questa sceneggiatura degna di un film di terzo livello di Hollywood e Bollywood, però non regge. L’identificazione del Califfo resta incerta perché i test del Dna sono stati condotti sul posto, tramite un lettore portatile, da tecnici delle forze speciali Usa che hanno confrontato alcuni campioni del Dna di al Baghdadi che avevano con loro, con alcuni frammenti prelevati, pensate un po’, dalle mutande del capo dell’Isis. I dubbi sull’esito del raid Usa perciò restano.

Non è fiction invece l’intenzione di Trump, di sapore squisitamente coloniale, di mettere le mani su alcuni giacimenti petroliferi siriani. Pretesto: impedire che possano tornare sotto il controllo di miliziani dell’Isis. Interesse vero: togliere a Damasco una importante risorsa energetica. Lunedì il segretario alla difesa Usa Mark Esper ha confermato che forze militari americane ben equipaggiate saranno schierate nei pressi dei giacimenti orientali della Siria. Rispondendo a una domanda della Cnn se la missione negherà l’accesso alle installazioni alle forze siriane e a quelle russe, Esper ha risposto: «Al momento sì». Quindi ha affermato gli Usa – che dalla sera alla mattina hanno venduto i curdi ai turchi – faranno in modo che le Fds abbiano accesso alle risorse generate dal petrolio, al fine di proteggere le prigioni dove sono rinchiusi quelli dell’Isis. I giacimenti di petrolio e gas di Deir Ezzor sono una sorta di premio strategico nella crisi siriana. Nel febbraio 2018, un numero imprecisato di soldati di Damasco sono stati stati uccisi da attacchi aerei Usa mentre avanzano verso il giacimento di gas di Conoco, controllato dagli Stati Uniti e dalle Fds, vicino a Deir Ezzor. Il furto Usa del petrolio siriano è stato criticato dal Congresso ma non dai democratici parlamenti e governi europei.

* Fonte: Michele Giorgio, il manifesto



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