Carcere. Il lavoro rende liberi, ma poveri

Carcere. Il lavoro rende liberi, ma poveri

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Ormai da tempo, le poche buone (relativamente) notizie in materia di carcere vengono dall’estero.

In questo caso, arriva dalla California, dove il governatore Gavin Newsom l’11 ottobre 2019 ha firmato una legge che vieta tutti i nuovi contratti e rinnovi con carceri private a scopo di lucro a partire dal prossimo primo gennaio, mentre i contratti già in essere dovranno essere gradualmente eliminati entro il 2028. La nuova norma riguarda anche i centri di detenzione civile e quelli utilizzati dal governo federale per gli immigrati in attesa di espulsione.

Va detto che, negli Stati Uniti che ne sono patria, un ripensamento riguardo le carceri private è in corso da tempo, pur con stop and go. Con l’Amministrazione Obama il Dipartimento di Giustizia aveva annunciato una revisione del sistema di gestione privata dei prigionieri. Un grande business, che si era espanso negli anni Ottanta, a partire da quella war on drugs che ha prodotto una perdurante incarcerazione di massa e ha reso gli USA il primo Paese al mondo per numero di reclusi: oltre due milioni, cui ne andrebbero sommati altri cinque di persone sottoposte a misure penali (probation, libertà condizionale,) fuori dal carcere. Quelli in prigioni private sono “solo” circa 130 mila, ma, tra la gestione diretta di circa 130 prigioni e la fornitura di servizi vari, garantiscono alle aziende un business annuale di almeno 40 miliardi di dollari.

La decisione di mettere in discussione le carceri private faceva seguito a un’indagine da cui era emerso che, oltre a essere onerose, ottengono risultati peggiori di quelle pubbliche. È, infatti, facile capire che un carcere privato tende naturalmente a voler incrementare il numero degli ospiti, piuttosto che a investire nel recupero e reinserimento nella società e nella prevenzione della recidiva, oltre che nella qualità del trattamento interno dei reclusi. Ma al nuovo orientamento in materia non devono essere stati estranei i tanti e grandi scioperi di prigionieri che negli anni scorsi hanno scosso le carceri, private e pubbliche, americane con proteste e rivolte innescate da diversi motivi di disagio, compreso quello legato alle forme intense di sfruttamento che vedono i carcerati costretti a lavorare per pochi centesimi l’ora o addirittura gratis. Negli USA, del lavoro recluso senza diritti si avvantaggiano multinazionali come Wal-Mart, McDonald, Victoria’s Secret, Nordstrom, AT&T Wireless, realizzando profitti incalcolabili.

Anche in questo settore Donald Trump ha cercato di smantellare scelte e orientamenti precedenti, non solo per l’avversione nei confronti della passata Amministrazione, ma anche perché le grandi corporation della gestione privata delle carceri avevano contribuito a finanziare la sua campagna elettorale. Due di esse, CoreCivic e Geo Group, nel 2016 hanno speso più di cinque milioni di dollari in attività di lobbying e finanziamento delle campagne presidenziali. Subito dopo il successo di Trump, entrambe hanno visto rialzare le proprie azioni, rispettivamente del 43% e del 21%.

Anche perciò la recente decisione dello Stato della California è un importante segnale di controtendenza. Naturalmente, le carceri private rappresentano solo uno dei problemi, ma altri ve ne sono intrecciati. Quello dello sfruttamento del lavoro coatto non è prerogativa delle sole carceri private. Nella stessa California, ad esempio, l’uso dei detenuti nel contrasto dei ricorrenti incendi è sempre stato prassi consolidata. Per spegnerli vengono impiegati migliaia di carcerati, pagati un dollaro l’ora se addetti alla linea del fuoco e due dollari per un’intera giornata se impiegati in seconda linea. Scrive Naomi Klein (Shock politics, Feltrinelli 2017) che in quel modo lo Stato della California risparmia un miliardo l’anno: «Un’istantanea di quello che succede quando mescoli la politica dell’austerity con le incarcerazioni di massa e il cambiamento climatico».

Quello del lavoro coatto gratuito è un sogno di tanti imprenditori, che qualcuno ha provato e prova a realizzare anche in Italia. Per il momento, in verità, in prima fila vi sono le istituzioni e gli enti pubblici, che vedono sempre più di frequente utilizzare il lavoro “volontario” dei detenuti per attività di manutenzione urbana, di pulizie e di vario genere.

I progetti, dal significativo e ambivalente titolo «Mi riscatto per…» seguito di volta in volta dal nome della città, hanno visto come capostipite Roma e si sono rapidamente diffusi in decine di altre città, sfruttando le opportunità normative dei lavori in pubblica utilità.

La ratio è esplicita, per come definita nel progetto capitolino: «Il progetto complessivo, definitosi nel tempo e con l’apporto dei vari partner, a medio termine mira a raggiungere i 300 detenuti. In prospettiva vi è l’idea, ancora in fase di elaborazione, di un’Agenzia pubblico/privata, per l’impiego di migliaia di detenuti in lavori di pubblica utilità. Parte dei risparmi per gli enti pubblici che ne deriverebbero, in piccola parte potrebbero essere utilizzati per la creazione di posti lavoro retribuiti per qui condannati che hanno prestato la loro opera a titolo gratuito». Dove l’accento va sul condizionale e su quel «in piccola parte».

Per l’intanto, quel che è certo è il recluso deve lavorare gratis. Volontariamente, s’intende. In cambio otterrà un bell’attestato finale. Più o meno come era successo per le migliaia di giovani “volontari” all’Expo milanese, un altro significativo test di massa teso a separare il lavoro dal salario.

Il carcere è fabbrica, come già ci aveva insegnato l’omonimo libro di Dario Melossi e del compianto Massimo Pavarini. Ma chi ci vive non ha riconosciute la dignità e le prerogative del lavoratore. E spesso neppure quelle di essere umano.

* articolo di Sergio Segio pubblicato sulla rivista Oltre il capitale, n. 2, novembre 2019



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