Ex Ilva, gli operai in sciopero. Il premier in fabbrica a Taranto

Ex Ilva, gli operai in sciopero. Il premier in fabbrica a Taranto

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 Annunciato il taglio della produzione: 4 milioni di tonnellate in meno e 5 mila licenziamenti. Antonio Talò (Uilm): “Gli impianti sono destinati alla fermata totale senza provvedimenti”. Maurizio Landini (Cgil): “Perché non pensare a un controllo pubblico sul 20-30% delle azioni?”

Prima di partecipare al consiglio di fabbrica con i lavoratori e i segretari confederali territoriali di Cgil, Cisl e Uil, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è fermato davanti alla portinera D dell’ex Ilva di Taranto, dove ha attraversato un folto gruppo di cittadini, rappresentanti di movimenti e associazioni, esponenti del Movimento cittadino liberi e pensanti, Mamme Tarantine, Giustizia per Taranto, operai ex Ilva in amministrazione straordinaria o in cassa integrazione. È stato un contatto bruciante con una città piena di ferite non rimarginabili: «Qua ci sono più morti che nascite. Ci deve aiutare» è stato detto. «Non ho la soluzione in tasca – ha ammesso Conte – Vedremo nei prossimi giorni». Le idee sono chiare: chiusura dell’impianto, e comunque dell’area a caldo, quella che ha creato la devastazione. All’interno della fabbrica Conte ha toccato un altro aspetto del problema. Nell’aula gremita del consiglio di fabbrica – «sembra l’aula di una lezione universitaria» ha detto, prima di cedere il microfono, cercando invano un’analogia con la sua vita da docente di diritto. ArcelorMittal «va via perché dice che non c’è sostenibilità sul piano economico e noi dobbiamo creare le premesse per un’attività produttiva perfettamente consonante con la comunità locale, ma non significa che diciamo a Mittal che può andare tranquillamente e ce la vediamo noi. Se andrà via comunque ci sarà una battaglia legale e saremo durissimi – ha detto Conte – Non c’è stata sensibilità, oggi è impensabile che una impresa di queste dimensioni operi senza essere accettata dalla comunità in cui lavora».

LA QUADRATURA del cerchio, cioè una soluzione tra il diritto alla salute e quello al lavoro: questo è il problema. Il segretario della Uilm di Taranto Antonio Talò ha chiesto al governo di «fare presto perché gli impianti marciano al minimo e sono destinati alla fermata totale senza provvedimenti. Tutti conoscono le difficoltà del mercato dell’acciaio, quello italiano non sarà per molti anni competitivo. L’azienda se ne è accorta e hanno capito che forse non vale la pena fare questi investimenti. Cercano il pretesto». «In questa fase abbiamo bisogno della politica e della scienza – ha detto il coordinatore delle Rsu Fiom Cgil Francesco Brigati – Più volte abbiamo chiesto politiche industriali che non li mettano in contrapposizione. Abbiamo chiesto più volte la valutazione integrata di impatto sanitario e ambientale per stabilire se la produzione è compatibile o meno con questo territorio». L’intensa, drammatica, serata del presidente del Consiglio è passata tra due fuochi: chiusura programmata, politiche industriali di nuova generazione. L’enigma resta sempre da sciogliere.

GLI OPERAI ex Ilva hanno inviato un segnale inequivocabile. Lo sciopero di 24 ore indetto da Fim, Fiom e Uilm in tutte le sedi del gruppo ArcelorMittal – Taranto, Salerno, Milano, Marghera e Genova – ha ricevuto un’alta adesione anche negli appalti e nei servizi. È la risposta alla strategia aggressiva di ArcerlorMittal che prevede, tra l’altro, il ridimensionamento della produzione, il licenziamento di 5 mila persone, la ridiscussione dei 2 mila in amministrazione straordinaria. I sindacati hanno chiesto l’immediato ritiro della procedura di recesso. «È un segnale forte, l’azienda non può fare orecchie da mercante» ha detto la segretaria della Cisl Annamaria Furlan.

«SONO PREOCCUPATO – ha detto l’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco – per Genova, Novi Ligure e innanzitutto Taranto. Spero in un colpo d’ala e che non si debba chiudere o ridimensionare l’azienda». Ma di «alibi» usato da ArcerlorMittal ha parlato la segretaria della Fiom Francesca Re David: «Il governo deve sgomberare il campo da questo alibi dello scudo pensale. È un puro alibi che gli è stato offerto in modo assolutamente anomalo, per non affrontare le responsabilità. Chiediamo che sia riconvocato il tavolo sindacale e che l’azienda dica che il contratto firmato un anno fa non era vero».

LA RICERCA DELLA SOLUZIONE è una corsa contro il tempo. Il gruppo indiano dell’acciaio Jindal ieri ha smentito ogni coinvolgimento. «Senza acciaio non si fa industria – ha incalzato il segretario della Cgil Maurizio Landini – Se l’Italia vuole restare un paese industriale deve avere un’industria siderurgica». A questo proposito Landini ha suggerito un «controllo pubblico sul 20-30%» delle azioni dell’azienda. «Già oggi i grandi gruppi sono pubblici: Eni, Enel, Poste. Queste discussioni non si risolvono in tribunale, ci vuole una trattativa».

«NAZIONALIZZARE? Il problema è chi paga» ha detto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. E se per il Ceo di Intesa Sanpaolo Carlo Messina «il governo dovrebbe considerare una nazionalizzazione molto dura anche contro l’Europa se non trova un accordo con Mittal», il ministro dell’economia Roberto Gualtieri ha ribadito che «Mittal adempia ai propri impegni: sviluppare investimenti, piano ambientale e industriale. Questa è la prospettiva del governo».

***Banca Intesa, stop alle rate dei mutui
Banca Intesa Sanpaolo ha deciso di sospendere le rate di mutui e prestiti dei dipendenti dell’ex Ilva e dei fornitori suoi clienti per un periodo fino a 12 mesi. Da ricordare che Banca Intesa Sanpaolo detiene il 5,6% della AM InvestCo Italy attraverso la quale ArcerloMittal Italia ha acquisito in affitto i rami d’azienda dell’ex gruppo Ilva. «Intesa Sanpaolo vuole dimostrare la propria vicinanza ai dipendenti ex Ilva e delle aziende fornitrici e alle loro famiglie in questo momento di seria difficoltà», ha spiegato Carlo Messina, consigliere delegato e ceo di Intesa Sanpaolo.

* Fonte: Mario Pierro, il manifesto



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