COP25, Time for action. Il clima tra ambizioni e rischi «greenwashing»
La 25ma Conferenza delle Parti – Cop25 – tenuta dal governo cileno ma spostata a Madrid a causa della situazione sociale del Cile, dovrà completare le regole degli Accordi di Parigi. È una sessione solo apparentemente «tecnica»: se, come in ogni negoziato complesso, gli aspetti tecnici sono importanti per far funzionare un trattato, dentro gli aspetti tecnici si giocano anche i tentativi «politici» di annacquare l’efficacia degli Accordi.
Com’è noto, gli obiettivi volontari dichiarati dai diversi Paesi nel 2015 a Parigi sono insufficienti a mantenere l’aumento di temperatura globale rispetto all’era preindustriale “ben al di sotto dei 2°C” o meglio a 1,5°C. Con gli impegni attuali – se rispettati, peraltro – viaggiamo verso un aumento di oltre 3°C di temperatura media globale entro il secolo. E dunque verso impatti catastrofici. Nel corso dell’anno prossimo, com’è previsto, gli impegni andranno alzati enon di poco: l’Intergovernmental Panel on Climate Change valuta le misure da prendere in circa un dimezzamento delle emissioni attuali entro il 2030 (per poi proseguire la riduzione e arrivare alla «neutralità» climatica entro il 2050).
Tra gli strumenti in discussione al tavolo negoziale quello del «mercato del carbonio» – cioè come commercializzare tagli di emissioni dei «virtuosi» in modo da finanziare misure e azioni di riduzione facendo pagare a chi inquina – discusso sotto l’Articolo 6 dell’Accordo, assieme ad altri aspetti. In sostanza, se un Paese non riesce a fare il taglio delle emissioni a casa propria e trova un altro Paese nel quale questo taglio è fattibile a minori costi, può cooperare condividendo spesa e riduzione delle emissioni. E fin qui sembra tutto razionale. Ma ci sono un paio di trappole da evitare per non cadere in un imbroglio.
Alcuni Paesi – ad esempio il Brasile – vorrebbero poter conteggiare i tagli derivati da questo meccanismo, sia per cedere «crediti» di emissione sia per raggiungere i propri obiettivi, in questo modo contando il taglio due volte. Un altro aspetto riguarda i crediti già emessi nell’ambito del Protocollo di Kyoto che alcuni vorrebbero riportare anche nell’Accordo di Parigi. Anche in questo caso si tratta di crediti già generati e ceduti, dunque in questo caso si cerca di far contare azioni del passato all’interno dei nuovi Accordi.
In sostanza, da come verranno scritte queste regole si capirà se gli Accordi di Parigi potranno essere davvero lo strumento per combattere i cambiamenti climatici, posto che poi i Paesi presentino piani sufficientemente ambiziosi come si capirà nei prossimi mesi. Se le regole non saranno chiare e precise, infatti, il rischio è tutto, dopo anni di negoziato, si traduca definitivamente in fuffa.
In sede europea il dibattito si è aperto sulla proposta di portare l’obiettivo di riduzione dal 40 al 55% entro il 2030. Per l’Italia che, secondo la distribuzione degli sforzi in sede EU, deve tagliare del 32% le emissioni entro il 2030, finora dal governo sono venuti segnali poco chiari.
Pochi giorni fa sette aziende elettriche, tra cui Enel e la spagnola Iberdola, hanno scritto ai governi europei per chiedere un taglio delle emissioni di CO2 «almeno del 55% rispetto ai livelli del 1990». È un obiettivo – il 55% – che si può raggiungere e superare e che sarebbe l’obiettivo principale del Green New Deal. Le resistenze dei settori fossili sono però ancora forti: la politica in Italia e in Europa saprà essere all’altezza della sfida e rispondere alla richiesta di tanti cittadini, giovani e meno giovani, che da mesi manifestano per un futuro possibile?
* Giuseppe Onufrio, Direttore Greenpeace Italia
Fonte: il manifesto
Related Articles
Genova, la tragedia del Ponte e il decreto scomparso
Rinviato, promesso, garantito, fermato dal Mef perché senza coperture e “molto incompleto”, il provvedimento “urgente” per la ricostruzione del ponte sul Polcevera arriva dopo due settimane dal presunto varo del Consiglio dei ministri
SALVARE IL TERRITORIO È L’OPERA PIÙ URGENTE
Mentre lo spread cala, la crisi avanza, crescono disoccupazione e allarme sociale, ma a certe cose non si rinuncia: tatuaggi, cibi esotici, yacht, porti turistici e altri generi di prima necessità. E se qualcosa non funziona nel Bel Paese, non può che essere una fatalità. Che cosa di più “fatale” dell’erosione delle coste? E che colpa ne abbiamo, noi?
2100, città sommerse e caldo record “Il clima impazzito sconvolgerà la Terra”