«War on terror» e guerra di propaganda: quello che non dicono gli Afghanistan Papers

«War on terror» e guerra di propaganda: quello che non dicono gli Afghanistan Papers

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I documenti sulla guerra in Afghanistan ottenuti dal Washington Post dopo una battaglia legale di tre anni dicono molto. Ma non le cose più importanti. Confermano innanzitutto il vecchio adagio che “la verità è la prima vittima di ogni guerra”.

Le guerre si vincono non solo con le armi, ma con quella che un tempo si chiamava propaganda, ogni comunicazione. Con la “fabbricazione del consenso”, per dirla con Walter Lippmann, consigliere della delegazione Usa e del presidente Woodrow Wilson alla Conferenza di pace di Parigi del 1919 e capitano addetto alla propaganda nel corpo di spedizione, autore nel 1922 del fondamentale Public Opinion. Le 2,000 pagine di note e interviste pubblicate dal Washington Post raccontano che negli Stati Uniti il governo e il Pentagono hanno provato a fabbricare il consenso sulla guerra in Afghanistan. Non ci sono riusciti granché bene.

Da anni si levano obiezioni, tanto che in molti hanno reagito alla pubblicazione con un’alzata di spalle: segreto di Pulcinella. Ma quelle verità – “stiamo perdendo la guerra”, “non sappiamo contro chi combattiamo né cosa stiamo facendo”, “abbiamo favorito corruzione sistemica” – arrivano dalla voce dei più alti diplomatici e da generali pluridecorati, con nome e cognome. È tutt’altro che secondario e mette finalmente a tacere chiunque continua a ritenere che la guerra in Afghanistan abbia senso. O che ne abbia mantenere le truppe nel Paese centroasiatico.

Quei documenti servono. Ma vanno integrati, perché omettono due cose essenziali. Il fatto che quelle verità, già note ad addetti ai lavori, giornalisti non embedded e osservatori onesti, non si siano mai trasformate davvero in aperto dissenso, né negli Stati Uniti né in Europa, dove l’attenzione per l’Afghanistan è calata da tempo, va ricondotto a una delle più prosaiche regole della realpolitik.

A morire erano e sono gli afghani, non noi, non i “nostri soldati”. Secondo le stime per difetto del Post, dal 2001 sarebbero morte 157.000 persone, di cui 43,000 civili afghani e 64,000 membri delle forze di sicurezza locali. Più 42.000 combattenti Talebani e di altre organizzazioni. I militari americani morti sono circa 2.300, 1.145 quelli delle truppe della Nato. Quando i morti non sono “nostri”, la guerra non ci riguarda. È il primo non detto degli Afghanistan Papers.

Il secondo è che il problema, l’errore, la matrice di tante morti inutili non riguarda il modo in cui è stata condotta la guerra, come sembra suggerire il Post – con strategie fallaci, calibrate su obiettivi sempre diversi e a volte confliggenti, dalla sconfitta di al-Qaeda al tentativo di esportare diritti e democrazia con le armi – ma la guerra stessa, e più in generale la war on terror.

I Talebani sono un nemico inventato, creato sulla base dell’errata convinzione, ancora diffusa, che tra loro e al-Qaeda ci fosse stata un’alleanza di ferro, se non una vera e propria fusione. Non era così. Ma la guerra andava fatta. Serviva come rappresaglia all’11 settembre. E dava corpo al più importante paradigma della politica estera americana dalla guerra fredda: la guerra al terrore del “con noi o contro di noi”, dell’avversario trasformato in nemico, del nemico privato di qualsiasi diritto, ridotto a enemy combatant, a tuta arancione calpestata a Guantanamo, a nuda vita torturata nei centri segreti della Cia.

Oggi i Talebani siedono come interlocutori politici al tavolo negoziale di Doha, di fronte all’inviato di Trump Zalmay Khalilzad e al generale Austin Miller, capo delle truppe Usa e Nato in Afghanistan. Forse la guerra afghana potrà risolversi per via diplomatica. Ma il paradigma della guerra al terrore rimarrà valido. Mentre in Afghanistan ogni giorno spuntano nuove tombe.

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto

 

ph Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=466186



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