Dopo l’arresto di Nicoletta Dosio, una campagna per la grazia

by Livio Pepino * | 2 Gennaio 2020 9:54

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L’arresto di Nicoletta Dosio non sarà indolore. In valle e in decine di città si rincorrono manifestazioni e presidi di protesta mentre lo slogan «Nicoletta libera!» riempie i social. Tutti del resto colgono l’assurdità di rinchiudere in carcere Nicoletta mentre sono in libertà bancarottieri, condannati per corruzione, politici che hanno fatto strame del bene comune.

L’ingiustizia è stridente e apre gli occhi su quel che davvero è accaduto e accade in Val Susa. Con il rifiuto di chiedere misure alternative al carcere Nicoletta – come il Bartleby di Melville con il suo irremovibile «preferirei di no» – ha messo a nudo le prevaricazioni del sistema e la pratica, contro i dissenzienti, di un «diritto penale del nemico» fatto di attenuazione del carattere personale della responsabilità (Nicoletta è stata condannata non per comportamenti specifici ma «perché ha partecipato scientemente alla manifestazione»), di deliberata confusione tra presenza e concorso nel reato, di applicazione spropositata della custodia cautelare in carcere (definita, in alcuni casi di violenza a pubblico ufficiale, «il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le consistenti ed impellenti esigenze cautelari»), di mancata concessione di misure alternative per la il solo fatto di «essere No Tav e di abitare in Valle» (come accaduto a Luca Abbà) e di molto altro ancora. Grazie a Nicoletta «il re è nudo».

Non è certo la prima volta in cui le istituzioni reagiscono alle lotte sociali con un surplus di repressione. Ma, nella storia nazionale, ci sono stati momenti in cui la politica (una politica interessata, in qualche misura, al bene comune) ha saputo riprendere il suo ruolo. È accaduto, per esempio, nella primavera del 1970 quando un Parlamento pur a maggioranza moderata (con un governo a guida democristiana) colse che l’aspra conflittualità dell’autunno caldo dell’anno precedente, con oltre 10.000 denunciati per una pluralità di reati, non poteva canalizzarsi, senza ferite permanenti, nelle aule dei tribunali.

Venne così varata l’ultima amnistia politica (concessa con l’art. 1 del decreto presidenziale 22 maggio 1970) estesa a tutti i reati «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità naturali» punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e, sempre alle stesse condizioni, per la violenza o minaccia a corpo politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei reati anzidetti.

Disse, allora, il relatore della legge autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al «disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni».

Oggi il clima, avvelenato da furori repressivi di diverso segno, è assai diverso. I decreti sicurezza approvati dalla maggioranza gialloverde (e rimasti immodificati con quella giallorosa) hanno nuovamente penalizzato il blocco stradale, aumentato le pene per le occupazioni di stabili e previsto specifici e abnormi aggravamenti sanzionatori per la resistenza o violenza a pubblico ufficiale e reati consimili se commessi «nel corso di manifestazioni», così ribaltando persino l’impostazione del codice fascista che prevedeva (e formalmente prevede) come attenuante «l’aver agito sotto la suggestione di una folla in tumulto». Quanto all’amnistia, la sua stessa evocazione è considerata blasfema, tanto che, a seguito della demagogica riforma costituzionale del 1992, occorrono, per vararla, maggioranze parlamentari più ampie di quelle previste per le modifiche della Carta fondamentale.

La politica si guarderà bene dal riprendere un ruolo di governo lungimirante della società. E tuttavia la scelta di Nicoletta non può restare relegata nell’ambito di una coerenza etica individuale. Il suo è un gesto politico e deve avere un seguito politico. Nell’immediatezza dell’arresto l’associazione «Volere la luna» ha chiesto al Capo dello Stato di concederle la grazia: non come provvedimento di clemenza ma come atto, sia pur tardivo, di giustizia e come segnale di cambiamento di una politica e di un intervento giudiziario che mostrano sempre più il loro fallimento. Non ci sarà l’amnistia e, probabilmente, neppure la grazia, riservata nel Belpaese a chi è organico al potere di sempre (da Sallusti, a Bossi, agli agenti della Cia condannati per il sequestro di Abu Omar). Ma l’apertura di una campagna per la grazia avrebbe comunque l’effetto di costringere la politica, la cultura, il mondo del lavoro a schierarsi sulla libertà di dissentire, sul valore della libertà personale, sull’entità del potere punitivo. E non sarebbe poca cosa.

* Fonte: Livio Pepino, il manifesto[1]

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