Coronavirus. L’epidemia come occasione di ripensamento

Coronavirus. L’epidemia come occasione di ripensamento

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Può essere l’occasione per prendere coscienza del punto esatto nel quale è iniziata la deriva inarrestabile che mette in discussione le basi della civiltà fin qui realizzata

Per paradosso che possa sembrare, ecco che l’epidemia terribile del Coronavirus sembra riportare in primo piano i contenuti di fondo della politica, quelli che fatichiamo a rendere evidenti in primo luogo alle nostre coscienze.

Perché viviamo nella stagione storica nella quale precipita la crisi del modello energetico basato su fonti non rinnovabili, mentre è sotto gli occhi di tutti – meno che dei potenti – la calamità che non dà speranza del riscaldamento climatico, e la guerra che si diffonde nel mondo come in un supermercato producendo esodi di massa.

A ben vedere sono tutti argomenti che richiamano in primo piano le scelte sul destino di una sola razza, quella umana, e che riportano alla luce temi decisivi, quali le forme della democrazia necessaria, dell’eguaglianza e della libertà nell’epoca dell’assolutismo del capitalismo finanziario e della iperconnessione dell’informazione; e insieme ripropongono la residua resistenza del bene comune di fronte alla logica e alla pratica istituzionale della privatizzazione generalizzata che ha colpito quel 99% di esseri umani subalterni che non hanno potere, espropriati di ogni possibilità e ricchezza nel presente e nel futuro.

L’epidemia del Coronavirus, nella sua pericolosità reale e in quella enfatizzata dai media, sembra rappresentare così una sorta di malefica sfida e di epocale occasione.

Un’occasione per prendere coscienza del punto esatto nel quale è iniziata la deriva inarrestabile che mette in discussione le basi della civiltà fin qui realizzata. Ora che il vivere civile sembra sospeso e in qualche modo militarizzato, e questo viene pericolosamente accettato come il male minore.

Quel che accade dovrebbe almeno ricordare a tutti che la storia dell’umanità è anche storia, perfino letteraria, delle sue pandemie, che hanno interessato l’Occidente e l’Europa stessa, quando si sono accompagnate ai conflitti bellici – la spagnola nel periodo della Prima guerra mondiale, senza tacere quelle «fondative» che abbiamo diffuso noi nella «scoperta» del cosiddetto Mondo nuovo nelle Americhe e poi nella colonizzazione di continenti come l’Africa.

Dovrebbe allora crescere una diffusa responsabilità. E invece assistiamo all’enfasi mediatica che alimenta panico, ansia e un clima barbarico da «ignoto senza limiti»; e al rinfocolarsi di perversioni xenofobe che rilanciano la strategia perdente di esaltazione di confini, odio, muri e ulteriori divisioni – ora poi che i contagiati rifiutati siamo diventati noi.

Eppure è chiaro a tutti che, se l’epidemia insidia il primato economico della Cina e i suoi «obiettivi» per il nuovo millennio come ammette ora lo stesso Xi Jinping, in discussione è proprio l’intero modello di sviluppo globale, le gerarchie di mercato della globalizzazione reale della quale la Cina è stata, finora con plauso e vantaggio di tutti, il punto nevralgico. Una globalizzazione senza regole che sembrava inarrestabile e che invece all’improvviso si scopre vulnerabile ma senza ammetterlo.

Così come ancora non ammette che i responsabili del riscaldamento globale che distrugge le risorse, fin qui in modo diseguale distribuite, siamo sempre noi, il nostro modello di distruzione delle risorse che chiamiamo sviluppo. Si pensi al disastro ambientale degli incendi in Australia: sono bruciate superfici aride grandi come l’Italia, ma il governo democraticissimo di Canberra continua a negare il ruolo del cambio climatico trovando come colpevoli alcuni «piromani».

Insomma, il tema vitale della trasparenza dell’informazione non riguarda solo il gigante asiatico cinese, ma mette in discussione le forme della nostra democrazia e il ruolo dei media e del digitale troppo spesso dipendenti dagli stessi responsabili del mercato globale o dal potere. Quel potere capace di piegare a sé anche la scienza.

L’epidemia di Coronavirus manda a dire che il governo della gravissima crisi sanitaria in corso, ancorché rappresentativo, dovrebbe essere necessario. Necessario per la centralità dell’intervento dello Stato (checché ne pensi l’Europa reale che dovrebbe riflettere sul silenzio colpevole del mega-sistema privato Big Pharma che, se dovesse scoprire un farmaco adatto, ce la farebbe pagare a caro prezzo e ricatto); necessario come potere di controllo democratico: p. es. nessuno sa quando e come si fermerà il prezzo delle mascherine e dei prodotti pseudo-igienizzanti sui quali il mercato già specula; necessario per la salvaguardia dei beni comuni e della cura – sanitaria e di bonifica, visti i veleni che infestano la base produttiva -, una sanità e una cura pubbliche ed eguali per tutti, soprattutto ora per i più deboli (a partire dai malati, dai disabili, dagli anziani, dai bambini). Così come è essenziale la ricerca scientifica, la Cenerentola degli investimenti con l’istruzione – un nostro lettore si chiedeva se ora bombarderemo il virus con gli F35 che il governo ha comprato.

Questi sono i presidi reali contro le epidemie, non altro. Questo è il «governo di salute pubblica» che ci serve, non lo scontato ma ambiguo appello «tutti uniti, tutti insieme». Non è un caso che in questo momento la destra politica italiana si divida.

A fronte di una disponibilità forzata di alcuni e ai passi indietro della stessa Regione Lombardia, permane, lo stile suprematista-populista del signor «voglio i pieni poteri» Matteo Salvini che, in preda a contagio da potere e in perfetto stile sciacallesco da «monatto» manzoniano, ha perfino chiesto le dimissioni del presidente del Consiglio. Che almeno è impegnato ad arginare il Coronavirus e a venire a capo dei nefasti conflitti esplosi tra le istituzioni locali. Conflitti che – chissà se Conte se n’è accorto – saranno esaltati proprio dalla governativa «autonomia differenziata».

* Fonte: Tommaso Di Francesco, il manifesto

Immagine di leo2014 da Pixabay



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