Le donne e le tante forme del dominio. Intervista a Lea Melandri

Le donne e le tante forme del dominio. Intervista a Lea Melandri

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Filosofa e scrittrice, attivista instancabile Lea Melandri è uno dei punti di riferimento del movimento femminista italiano “Non una di meno” (NUDM). I suoi libri, da L’Infamia originaria ad Alfabeto d’origine, costituiscono oggi uno dei laboratori di un nuovo paradigma della politica: la politica dei sessi. In questa intervista lo mettiamo a confronto con uno dei principali concetti elaborati dai femminismi contemporanei, l’intersezionalità, nel tentativo di proporre un nuovo laboratorio di confronto e sperimentazione per tutti i movimenti di liberazione, a partire dall’emergenza delle nuove pratiche che intrecciano le lotte antirazziste con quelle per i diritti del lavoro, le lotte anti-sessiste con quelle contro il patriarcato e il capitalismo. L’obiettivo è creare una «forza collettiva allargata, rispettosa e insieme critica rispetto alle differenze, capace di affrontare l’intersezionalità in tutte le sue contraddizioni. Questa è la scommessa e lo sforzo immaginativo a cui sono chiamati i movimenti di liberazione oggi, a fronte di una crisi di civiltà e di tutte le istituzioni su cui si è retta finora la politica».

 Rapporto Diritti Globali: Sostieni una tesi che vedo emergere nei movimenti oggi: la politica è “ricerca di nessi” tra forme diverse di dominio e oppressione. Dal punto di vista femminista, qual è oggi lo strumento che serve a creare questi nessi e a rovesciare la contraddizione, lì dove si pone?

Lea Melandri: Si può parlare di “nessi” tra varie forme di dominio quando si comincia a vederle comparire e ad avvertirne il peso, la pericolosità, nella società in cui si vive, e soprattutto quando se ne riconosce la matrice comune. Non è un caso che sia oggi la rete femminista transnazionale NUDM a porre con insistenza il tema della “intersezionalità”, la compresenza nelle vite singole di violenze, ingiustizie, espropriazioni diverse, anche se non sempre portate ugualmente a consapevolezza. Uno degli slogan del movimento delle donne degli anni Settanta che ho amato di più è “modificazione di sé e modificazione del mondo”. Ma il mondo era allora “altro”, “lontano”, separato da quel “sé” che venivamo scoprendo e interrogando come l’archivio di una storia e di una cultura sepolte da millenni nel privato e consegnate all’immobilità delle leggi naturali. Figlia femmina di mezzadri poverissimi, non è stata la condizione di classe ad avvicinarmi ai movimenti nati dal ‘68, dopo la fuga dalla provincia, ma un corpo e una sessualità segnati profondamente dalla violenza maschile in ambito famigliare, a cui avevo assistito. Se li guardiamo dal punto di vista della soggettività, del vissuto personale, i “nessi” appaiono quasi sempre contraddittori, conflittuali, occultati, e non c’è da meravigliarsi se si arriva a riconoscerli come bisogni o desideri in tempi e modi diversi. Prioritaria, rispetto a una rivoluzione che si richiamava alle lotte operaie e al marxismo, è stata non a caso negli anni Settanta la “materialità” dell’espropriazione che è passata sul corpo delle donne, identificate con la sessualità e la funzione riproduttiva, cancellate come individui, ridotte a un genere. La parola “nessi”, che è entrata da subito nella mia pratica politica, è diventata un corpo a corpo con la sinistra extraparlamentare arroccata in difesa dell’unità di classe, diffidente rispetto a quel “soggetto imprevisto” che parlava di sessualità, maternità, aborto, e che da quell’“altrove” della politica veniva scoprendo nel sessismo la matrice originaria di ogni forma storica di dominio. Con Non una di meno l’orizzonte si è allargato, il “sé” è il mondo non sono più così distanti, il sessismo, il razzismo, il classismo, il fascismo appaiono nella loro trasversalità e rilevanza “oggettiva”. La pratica con cui affrontarli, se non si vuole cadere nell’ideologia, è tuttavia ancora una volta la presa di coscienza, l’attenzione ai vissuti, alla relazione tra individuo e collettivo, la capacità di mettere la vita nel cuore della politica.

 

RDG: Non una di meno organizza da tre anni uno sciopero dalle attività produttive e riproduttive ogni 8 marzo. Come valuti questa pratica, alla luce della storia del femminismo italiano?

LM: L’iniziativa che ha dato all’8 marzo una fisionomia nuova e del tutto particolare nella sua radicalità – sciopero dalle attività produttive e riproduttive – nasce, come sappiamo, in Argentina quando il 19 ottobre le donne che daranno vita alla rete Non una di meno incrociano le braccia, non per ragioni sindacali, come la disparità salariale o le discriminazioni sul lavoro, ma per lo stupro e l’omicidio di una sedicenne, Lucia Lopez. È una risposta imprevista da cui prende corpo l’accostamento inedito tra realtà che siamo abituati a considerare separatamente: la violenza contro le donne e le rivendicazioni sindacali, i residui di un dominio che passa attraverso le vicende più intime e lo sfruttamento che è alla base dell’accumulazione capitalistica. In fondo è il nesso che andavamo cercando già negli anni Settanta: l’intreccio tra esperienze rimaste per secoli legate al privato e al destino femminile – la sessualità, la maternità, la cura dei figli e della famiglia, riduttivamente e impropriamente collocate sotto la voce “riproduzione” – e le organizzazioni di carattere sociale ed economico, un accostamento destinato a modificarle entrambe. Pensare, come dice lo slogan di NUDM, “una giornata senza di noi”, significa portare allo scoperto la divisione sessuale del lavoro, mettere in discussione l’atto fondativo stesso della politica, la separazione tra il corpo e la polis, la differenziazione violenta che ha collocato l’uomo sul versante della storia e la donna su quello della natura. Significa soprattutto, come già aveva fatto negli anni Settanta il gruppo per il Salario al Lavoro Domestico, riconoscere che la cura e tutte le attività che le donne sono chiamate a svolgere nelle case, considerate “dono d’amore”, doti connaturate al loro essere madri, sono un aggregato della grande economia, il sostegno materiale e psicologico al compito sociale e civile dell’uomo. Si è dovuto aspettare mezzo secolo per assistere a un singolare scambio delle parti: il femminismo che si appropria dello sciopero, rimasto finora legato alla sfera produttiva, mentre sotto i suoi slogan si vengono a collocare soggetti diversi, accomunati dalla volontà di liberare il mondo da violenze sessuali e di genere, ingiustizie, odio razziale, cattiva educazione, devastazione ambientale, governi autoritari. Con lo sciopero dell’8 marzo viene alla coscienza con chiarezza la trasversalità delle donne, la loro presenza come forza lavoro nel privato come nel pubblico, e di conseguenza cade la contrapposizione tra amore e lavoro, tra sopravvivenza economica e sopravvivenza affettiva. Viene allo scoperto quella che ho chiamato “l’infamia originaria”.

 

RDG: Alcuni sindacati di base partecipano all’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo. Ritieni che la pratica della ricerca dei nessi politici, tipico del movimento femminista, possa coinvolgere anche sindacati come CGIL? In Spagna, ad esempio, questo avviene. E produce risultati impressionanti…

LM: All’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo hanno partecipato finora solo i sindacati di base, la CGIL purtroppo è sembrata addirittura volerlo boicottare. Non c’è dubbio che il coinvolgimento del maggiore sindacato è importante per la riuscita di un’iniziativa che, per quanto di portata transnazionale, patisce la sorte di messa sotto silenzio, o comunque di marginalità, che hanno avuto finora i movimenti femministi, e non solo, soprattutto se hanno conservato, come in Italia – ed è qui forse la differenza dall’8 marzo spagnolo – posizioni di rigida autonomia rispetto alle formazioni sociali, sindacali e politiche organizzate. Mi auguro che la CGIL ci ripensi.

 

RDG: Angela Davis sostiene che razzismo e capitalismo sono connessi. Lo stesso capitalismo, dice, proviene dal colonialismo. E che il femminismo li combatte entrambi. Cosa pensi di questi femminismi anticapitalisti e antirazzisti?

LM: Condivido l’affermazione di Angela Davis che «il femminismo implica molto più che non la sola uguaglianza di genere, e molto di più del genere». Ma era necessario che il movimento di liberazione delle donne degli anni Settanta prendesse le distanze dalle battaglie di emancipazione, così come dalle lotte operaie anticapitaliste, per portare alla coscienza storica un “rimosso” che sta a monte delle scoperte di Marx e di Freud – lo sfruttamento economico, la sessualità – e in connessione con esse, e cioè la cancellazione della donna come singolarità incarnata, la sua identificazione con la sessualità e la maternità, la sua esaltazione immaginativa e insignificanza storica. Colonialismo e razzismo parlano una lingua imparentata con le costruzioni di genere, con le figure del maschile e del femminile così come le abbiamo ereditate dal sessismo. Il nero, l’ebreo sono stati visti come popoli che posseggono «una maggiore quantità di femminilità» (Otto Weininger). Quanto al capitalismo, si può dire che c’è differenza tra la mercificazione del corpo dell’operaio – una forza lavoro che vendendosi a un padrone fa del suo corpo una merce, pur senza perdere per questo la sua individualità, che torna ad affermarsi dentro la famiglia in posizione rovesciata di patriarca rispetto alla moglie e ai figli – e il destino toccato al sesso femminile di incarnare la “prima” merce o la merce per eccellenza. La donna è stata identificata col corpo, un corpo a cui l’uomo ha dato forma, nomi, funzioni. L’operaio si fa merce rispetto ad altri uomini, la donna è merce di scambio tra uomini. Per questo, se è importante, come dice Angela Davis, mettere in relazione le diverse forme di dominio e sfruttamento, è altrettanto importante che non si torni a rimuovere quella che è la matrice originaria di ogni violenza e prevaricazione, e che forse per questo incontra ancora tanti ostacoli a imporsi nelle lotte contro l’ordine esistente. A questo va aggiunto il fatto che il dominio maschile si è intrecciato e confuso con le vicende più intime degli umani: gli uomini sono i figli delle donne, incontrano quel corpo che li ha generati nel momento della loro maggiore dipendenza e lo ritrovano nella vita amorosa adulta in una posizione di potere capovolta ma ambigua: patriarchi e in qualche modo ancora figli di una moglie-madre.

 

RDG: Come spieghi la scelta di soggetti oppressi e subalterni diversi di collocarsi nel campo del femminismo per rivendicare la loro lotta contro la violenza sessuale, economica e sociale?

LM: Dire, come si legge nei documenti di Non una di meno, che «lo sciopero è di tutti» porta effettivamente a pensare che il femminismo si orienti a prendere il posto di quel soggetto rivoluzionario unico quale è stata in passato la classe operaia. In sostanza, una specie di asso pigliatutto. Allo stesso modo, sarebbe riduttivo intendere questa affermazione solo come alleanza tra movimenti diversi, ognuno con la propria identità. Se il femminismo si può considerare oggi il principale riferimento per un processo di liberazione comune a molteplici soggettività, è perché le sue pratiche –il partire da sé, l’attenzione al corpo, ai sentimenti, all’immaginario, alle formazioni inconsce, alla interiorizzazione di quegli stessi bisogni che vengono coltivati dall’apparato di dominio – permettono di interrogare le contraddizioni che si aprono quando le diverse appartenenze, di sesso, genere, razza, classe, eccetera, vengono calate nel vissuto personale, nell’esperienza dei singoli. Sappiamo che si può essere al medesimo tempo anticapitalisti e sessisti, omofobi. L’elemento unificante va cercato a mio avviso – come dice Maria Luisa Boccia – a partire da quelle pratiche radicali con cui il femminismo ha preteso di ridefinire la politica: la centralità della vita personale e delle relazioni, la critica a tutti i dualismi, l’invenzione di una lingua capace di «ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni». Una pratica attenta al rapporto individuo-collettivo, ma anche inconscio-coscienza, sentimenti e ragione, è quello che c’è di più distante dalle forme organizzate che ha avuto finora la politica, con capi, gerarchie, arroccamenti identitari, paura del diverso, bisogno di unità. Come trovare questa forza collettiva allargata, rispettosa e insieme critica rispetto alle differenze, capace di affrontare l’intersezionalità in tutte le sue contraddizioni, è la scommessa e lo sforzo immaginativo a cui sono chiamati i movimenti di liberazione oggi, a fronte di una crisi di civiltà e di tutte le istituzioni su cui si è retta finora la politica.

 

RDG: Per il femminismo intersezionale il discorso antirazzista è fondamentale. È molto forte la polemica con il femminismo “bianco” e “borghese”. «Non appena le donne, in particolare […] le privilegiate donne bianche, hanno iniziato ad acquisire un potere di classe senza sbarazzarsi del sessismo che avevano introiettato, le divisioni tra donne si sono fatte più intense», scrisse ad esempio un collettivo di femministe lesbiche nere, il Combahee River Collective. Cosa pensi di questo conflitto?

LM: Il discorso antirazzista ha un grande rilievo nelle analisi e nelle iniziative di Non una di meno, sia per il carattere globale di questa generazione femminista, sia perché anche il nostro Paese sta cambiando per effetto delle migrazioni e soprattutto di politiche di chiusura, respingimento, quando non scopertamente razziali. La critica al femminismo “bianco” è giustificata dal silenzio che su questo tema c’è stato per decenni nel movimento delle donne italiano. Non sono mancati gli studi, ma è da è poco tempo che è nata – solo per fare un esempio – la collana “Sessismo/razzismo” per le edizioni Ediesse. Come abbiamo messo in discussione la falsa “neutralità” del pensiero e del linguaggio maschile, così era necessario riconoscere la falsa universalità di analisi legate a un contesto storico particolare, quello di donne “bianche”, per lo più di estrazione borghese. Trasversale alle diverse appartenenze si può dire che la violenza contro le donne nelle sue forme invisibili e manifeste – stupri, femminicidi, campagne antiabortiste, eccetera –, così come la difficoltà a farla riconoscere anche all’interno degli stessi movimenti antirazzisti, anticapitalisti, ambientalisti. I conflitti tra donne, nel momento in cui emergono le diverse appartenenze, e il loro intreccio nella singolarità delle vite, sono inevitabili, in quanto legati a bisogni e vissuti spesso contraddittori. Ancora una volta è il “partire da sé” che aiuta ad aprire la strada verso il retroterra di memoria collettiva che accomuna le esperienze particolari di ognuna, al di là del segno che le culture diverse vi hanno lasciato sopra.

 

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Lea Melandri: saggista, scrittrice e giornalista italiana. Sin dagli anni Settanta è una delle voci più significative e autorevoli del movimento delle donne. Dal 1971 al 1978, allo psicoanalista Elvio Fachinelli, ha dato vita e diretto la rivista “L’erba Voglio”. Successivamente, dal 1987 al 1997, la rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”. Nel 1987 è stata tra le promotrici della Libera Università delle Donne, che presiede tuttora. È autrice di numerosissimi testi, tra cui: L’infamia originaria – Facciamola finita col cuore e la politica (Edizioni L’erba voglio, 1977; nuova edizione Manifestolibri, 1997 e 2018); Lo strabismo della memoria (La Tartaruga, 1991; nuova edizione Smasher, 2019); La mappa del cuore – Lettere di adolescenti ad un giornale femminile (Rubettino, 1992); Una visceralità indicibile – La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta (FrancoAngeli, 2000); Le passioni del corpo – La vicenda dei sessi tra origine e storia (Bollati Boringhieri, 2001); Come nasce il sogno d’amore (Bollati Boringhieri, 2002); Preistorie – Di cronaca e d’altro (Filema, 2004). Amore e violenza – Il fattore molesto della civiltà (Bollati Boringhieri, 2011); Alfabeto d’origine (Neri Pozza, 2017). Ha curato Il desiderio dissidente – Antologia della rivista “L’Erba voglio” (1971-1977) (DeriveApprodi, 2018).

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Dal 17° Rapporto Diritti Globali – Cambiare il sistema, a cura di Associazione Società INformazione, Ediesse editore

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