Per una giustizia nel commercio, le insidie dei Trattati in corso. Intervista a Monica Di Sisto
L’agenda commerciale internazionale, al di là della retorica istituzionale e delle reiterate promesse di riequilibrio globale, ha creato le condizioni per una crescente insostenibilità sociale e ambientale. Il processo di globalizzazione dei mercati ha continuato a espandersi, con una progressiva sostituzione del tavolo multilaterale della World Trade Organization (WTO) con decine di trattati bilaterali di libero scambio, dove diritti ambientali e sociali giocano un ruolo ancillare. Su come si stia modificando lo scenario mondiale e sulle risposte della società civile, ci dice qui Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch e portavoce della Campagna Stop TTIP CETA Italia.
Rapporto Diritti Globali: Oramai da tempo stiamo assistendo a una progressiva accelerazione dei negoziati bilaterali di libero scambio, presentati come l’unica soluzione alla stagnazione dell’economia e per un suo ulteriore rilancio: che sta succedendo in questi ultimi anni?
Monica Di Sisto: «Gli scambi non sono mai diventati effettivamente globali, e anche nella fase della globalizzazione sono rimasti concentrati nelle tre grandi aree continentali: Nord America, Europa, Asia orientale. Rispetto al passato esiste una differenza importante. Una quota rilevante degli scambi è infatti oggi dovuta a ragioni di tipo produttivo, e non semplicemente commerciale, ovvero all’esistenza di catene del valore frammentate in senso verticale e ormai distribuite a scala internazionale. Questo fa sì che la forma attuale della rete degli scambi sia caratterizzata da un grado di inerzia molto alto, e che l’ambizione di “riportare in patria” produzioni precedentemente dislocate altrove (nel mondo emergente) sia destinata a ridimensionarsi». Questa dichiarazione non è di un pericoloso rivoluzionario, ma della Confindustria che, nel suo Rapporto sull’Industria Italiana 2019, spiega la stessa cosa per cui le associazioni come la mia sono state etichettate per anni come “no-global” per averlo provato a raccontare.
Alle imprese conviene “surfare” intorno a un mondo con meno regole e standard possibili, sempre più simili e sempre meno costosi, anche se dannosi per l’ambiente e per le persone, e con il massimo dell’impunità possibile. Ma i limiti fisici e geopolitici contano, e se aumentano i prezzi delle materie prime, soprattutto energetiche, le poche imprese che esportano (parliamo per l’Italia di 125 mila imprese nel 2017 secondo l’ICE, sulle oltre 4 milioni 397 mila imprese attive secondo l’ISTAT, meno del 2% delle piccole imprese con fino a 9 addetti, poco più del 20% delle imprese tra 10 e 49 addetti) gli spostamenti vanno limitati il più possibile, soprattutto se a spostarsi non è il prodotto finito verso il mercato di vendita, ma frammentatissimi componenti o parti di processi di una catena di valore che vanno a determinare il prezzo finale di un solo prodotto o servizio da immettere nel mercato. Per questo gli scambi si sono concentrati in macro-fabbriche geopolitiche su scala regionale.
RDG: Quanto queste agende di liberalizzazione commerciale impattano sulla produzione agricola e alimentare, mettendo a rischio piccole produzioni e sostenibilità ambientale?
MDS: I negoziati commerciali in corso presso la WTO, e a maggior ragione quelli bilaterali condotti dalla Commissione Europea con i nostri partner commerciali, vengono negoziati per facilitare il commercio, e concepiscono l’esistenza di regole a difesa del mercato interno, della produzione commerciale, ma anche della sicurezza dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente, solo se non oppongono un «irragionevole ostacolo al commercio», secondo quanto stabilito nei trattati fondativi della WTO.
Non sono i dazi, secondo l’analisi dell’Agenzia dell’ONU su Commercio e sviluppo UNCTAD a rallentare il commercio globale: «I livelli dei dazi sono rimasti sostanzialmente stabili negli ultimi anni e la protezione tariffaria resta un fattore critico solo in alcuni settori e in un numero limitato di mercati», spiega l’Agenzia.
A provocare le vere tensioni tra le principali economie globali però, spiega ancora l’Agenzia delle Nazioni Unite, è «l’uso diffuso di misure legislative e di altre misure non tariffarie […]. Gli standard e i requisiti tecnici interessano oltre il 30% delle linee di prodotti attualmente in commercio e quasi il 70% del volume del commercio mondiale, mentre varie forme di misure sanitarie e fitosanitarie ne interessano circa il 20%». E sono proprio questi standard, requisiti e misure a essere sempre più sotto attacco sia nel pressing diretto da parte delle grandi imprese sui negoziatori nel corso delle trattative, sia presso l’organismo di composizione delle controversie commerciali della WTO (Dispute Settlement Body, DSB) e presso gli arbitrati contenuti nei trattati commerciali e per gli investimenti già in vigore, che consentono alle imprese e ai loro Stati di provare a forzare le regole dichiarandole «irragionevoli» e fare più spazio a flussi di export sempre più ampi e redditizi, costi quel che costi.
L’Unione Europea, in realtà, si sarebbe impegnata a riconoscere e far rispettare il principio di precauzione fin dal Trattato di Maastricht che prevede che una merce venga bloccata anche solo per il sospetto di contaminazione o pericolo. Il sistema statunitense e quelli che a esso si rifanno, invece, spostano sul consumatore la dimostrazione del danno e non ritirano dal commercio un prodotto se non a seguito di verifica, con solida scienza tutta concorde, e molto spesso dimostrata in tribunale da parte del cittadino o della comunità colpita, dell’inequivocabile esistenza del vincolo causa-effetto tra il prodotto o servizio e il danno subito dall’individuo. Paradossalmente proprio l’Unione Europea, nei trattati commerciali di ultima generazione, cita il principio di precauzione sporadicamente e non secondo la piena definizione disponibile (un esempio di questa menzione è contenuto nel recente trattato di Partenariato commerciale sottoscritto con il Giappone), oppure si conforma alla sua definizione più invalsa, per esempio nel Trattato stretto con il Canada, il CETA.
RDG: Il CETA, l’accordo di liberalizzazione tra Canada e Unione Europea è in via di ratifica in molti Paesi europei, tra cui l’Italia. In caso di conferma dell’accordo, quali sarebbero i rischi dal punto di vista ambientale e fitosanitario?
MDS: Purtroppo il CETA, anche se il Parlamento italiano non ne ha ancora votato la ratifica come quello tedesco e la maggior parte dei Parlamenti UE, è entrato già in vigore in via provvisoria. A fronte di risultati modesti dal punto di vista commerciale che ICE quantifica in un aumento dell’export italiano verso il Canada del 4,8% nel 2018, assolutamente in linea con gli anni pre-accordo, ha già dimostrato quanto sia prezioso per Stati e imprese che vogliano provare a forzare le nostre regole.
Come Campagna Stop TTIP/CETA Italia siamo entrati in possesso di un dossier della Camera di commercio canadese, finanziato da un colosso agrochimico multinazionale con sede in Canada, la CropLife, che chiede al governo canadese di usare il CETA, come abbiamo sempre previsto che avrebbero fatto, per far saltare quelli che loro considerano ostacoli al libero commercio e invece sono pagine importanti della democrazia europea.
All’Italia viene dedicata un’intera pagina del report, per criticare le regole di tracciabilità in etichetta dell’origine delle farine, il bando degli OGM per uso alimentare e i limiti di residui di pesticidi nel grano duro. Tutte “barriere non tariffarie”, secondo gli estensori, e come tali da radere al suolo attraverso un lavoro certosino da svolgere nel controverso comitato per la cooperazione regolatoria istituito dal CETA. Nel documento, la Camera di commercio canadese spiega infatti con chiarezza che «uno dei punti di forza del CETA è la struttura istituzionale creata dall’accordo, che spinge il governo del Canada e la Commissione Europea a mettere sul tavolo i fattori “irritanti” per il commercio». L’etichettatura di origine del grano, in quest’ottica, ha avuto un impatto definito «disastroso» per l’export canadese, crollato dai 557 milioni di dollari canadesi del 2014 ai 93 milioni del 2018. Si sostiene che l’etichettatura sia stata promossa da «attivisti che amplificano informazioni errate su presunti residui di glifosato nelle esportazioni canadesi». Per questo, tuttavia, «è vitale dare un segnale preciso per risolvere questo problema e respingere il protezionismo». Una posizione inaccettabile.
RDG: Il Trattato UE-MerCoSur, cioè l’accordo di liberalizzazione tra Unione Europea e il blocco latinoamericano che comprende Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, contribuirà a un aumento della deforestazione e avrà un impatto sulle produzioni locali, cosa potrebbe succedere in Brasile e cosa in Europa dopo l’aumento delle quote di esportazione della carne?
MDS: La valutazione indipendente di impatto del trattato richiesta dalla Commissione Europea e chiusa prima dell’arrivo di Jair Bolsonaro alla guida del Brasile, segnala molti potenziali problemi a fronte di uno 0,1% di aumento presunto del PIL europeo in un periodo di dieci anni dall’entrata in vigore nella formulazione più liberista possibile. Per l’Europa il colpo principale lo subirà, e molto secco, il settore agricolo, zootecnico e della trasformazione piccola, media e di qualità, con una concorrenza diretta e insostenibile sui produttori di materie prime e una prevedibile – ulteriore – depressione dei prezzi interni, concentrazione e sottoccupazione. In cambio si facilita un maggiore e più economico accesso delle aziende europee del settore metalmeccanico, chimico e farmaceutico – strategiche per la Germania – al ricco mercato latinoamericano. Il Brasile in particolare, in generale la controparte, lo pagherà in termini di impatti sociali e ambientali, con una più intensa, prevista, deforestazione, e un aumento progressivo delle emissioni contro le quali la valutazione raccomanda di prevedere l’inserimento di un meccanismo di valutazione e monitoraggio.
Come Fairwatch, insieme a oltre 340 organizzazioni della società civile europea, italiana e del MerCoSur abbiamo chiesto ai nostri governi di non firmare il trattato denunciando che avrebbe amplificato le violazioni dei diritti sociali e dell’ambiente soprattutto in Brasile e nella regione amazzonica dopo l’abolizione del dipartimento per le politiche su clima e ambiente, responsabile dell’implementazione dell’Accordo di Parigi, e in considerazione dell’attacco sistematico alle politiche sociali, la chiusura seriale di associazioni e realtà indigene, l’incarceramento e le morti misteriose di attivisti e leader avvenuti con l’insediamento dell’attuale presidente. Nei 31 giorni di maggio sono andati in fumo 739 chilometri quadrati di foresta, corrispondente a due campi di calcio al minuto Terreno destinato all’allevamento, con la potente lobby agricola del Brasile felicissima alla prospettiva di aumento delle esportazioni agroalimentari di carne e soia in UE e in Cina.
RDG: Quali sono le alternative che vengono proposte da movimenti sociali come la rete Stop TTIP CETA/Italia?
MDS: Esattamente vent’anni fa la WTO tracollò per la prima volta e a bloccarne fisicamente gli ingressi e a denunciare l’impatto distruttivo della deregulation commerciale contro la qualità dell’occupazione, dell’ambiente, dei diritti a Nord e a Sud furono migliaia di lavoratori, studenti, ambientalisti, sindacalisti e contadini arrivati dai quattro angoli del pianeta, che per la prima volta indicarono nella scarsa trasparenza delle filiere globalizzate e dei negoziati che le appoggiavano un problema per la stessa sostenibilità economica del commercio internazionale in un mercato che impoverisce. Ancora oggi, con la Campagna Stop TTIP/CETA e con le reti internazionali per la giustizia economica e climatica, continuiamo a lottare per fermare i trattati tossici e antidemocratici che consentono a poche grandi imprese irresponsabili di continuare a lucrare nonostante l’economia globale abbia svelato quel volto crudele che noi abbiamo denunciato fin da allora. Continueremo a chiedere che l’Italia sia protagonista di un cambiamento profondo di queste politiche in Europa, bocciando la ratifica del CETA in Parlamento per suscitare un’impasse istituzionale e un profondo ripensamento della ragione e degli obiettivi della politica commerciale nazionale ed europea.
Alcuni correttivi da apportare, a bocce ferme, alle regole della WTO per riorientarle verso la garanzia del diritto al cibo sono stati proposte quasi vent’anni fa dall’allora relatore speciale per il diritto al cibo Olivier De Schutter e restano quantomai attuali. Innanzitutto, indirizzare gli investimenti in agricoltura e le politiche di sostegno generale al settore verso le piccole e medie aziende contadine anche con strumenti di sostegno al mercato interno. In secondo luogo, permettere a Stati e autorità locali di introdurre reti di sicurezza e sostegno al reddito per i poveri urbani e rurali senza che vengano classificate come distorsive del mercato. Ma, dopo vent’anni, queste misure di buon senso non bastano più. Si dovrebbero prevedere clausole d’esclusione dal negoziato di interi settori d’interesse pubblico, a partire da acqua, istruzione, sanità e produzione alimentare di base, che li sottragga dall’area d’azione dei nuovi trattati e degli eventuali meccanismi di arbitrato in vigore. Bisognerebbe subordinare l’avvio dei negoziati, a livello multilaterale, plurilaterale e bilaterale, all’adesione vincolante dei contraenti ai trattati internazionali fondamentali, sia vincolanti sia volontari, in tema di lavoro, ambiente, clima e diritti umani. Si dovrebbe procedere all’annullamento delle clausole arbitrali, per escludere la possibilità da parte degli investitori di rivalersi contro gli Stati partner presso meccanismi esterni alla giustizia ordinaria. L’avvio di un percorso attuativo in questa direzione, nel quadro della messa a regime di un meccanismo per una verifica stringente della coerenza delle politiche per lo sviluppo sostenibile partecipata da parti sociali e società civile, sarebbe un buon modo per festeggiare questi vent’anni di resistenza e politica.
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Monica Di Sisto: vicepresidente di Fairwatch e portavoce della Campagna Stop TTIP Italia, è giornalista sociale professionista, specializzata nei temi del commercio internazionale e dell’economia solidale e consulente per diverse ONG sui temi della sostenibilità e dell’advocacy.
Scrive per l’agenzia di stampa “ASCA”, per “Altreconomia” e Sbilanciamoci.info; è tra i fondatori del portale di economia solidale www.comune-info.net. Insegna Modelli di sviluppo economico alla facoltà di Scienze sociali della Pontificia Università Gregoriana. È membro del Comitato Etico di Etica Sgr. Autrice di diverse pubblicazioni, tra cui: WTO. Dalla dittatura del mercato alla democrazia mondiale (con Alberto Zoratti e Roberto Bosio, EMI, 2005); Un commercio più equo (Altreconomia, 2012) e I Signori della Green Economy. Neocapitalismo tinto di verde e Movimenti glocali di resistenza (con Alberto Zoratti, EMI, 2013) e Nelle mani dei mercati. Perché il TTIP va fermato (con Alberto Zoratti e Marco Bersani, EMI, 2015).
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* Dal 17° Rapporto Diritti Globali – Cambiare il sistema, a cura di Associazione Società INformazione, Ediesse editore
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