L’economia mondiale è sempre più a rischio. Intervista a Marcello Minenna

by Massimo Franchi * | 20 Marzo 2020 12:21

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Per l’economista Marcello Minenna, un dato emerge con evidenza dopo questi anni di crisi globale e recessione: non solo «il sistema neoliberista che era emerso dalle crisi petrolifere degli anni Settanta è entrato in crisi profonda», ma ha mostrato un’incapacità di autoriformarsi. Anche questo, assieme a diversi fattori, come la decremento demografico in corso nelle economie sviluppate, porta a una tendenziale deglobalizzazione. In questo nuovo quadro macroeconomico vanno letti il crescente protezionismo e la guerra dei dazi, potenzialmente destabilizzanti. Così come l’ingente debito accumulato nelle diverse economie, che rende possibile una nuova crisi finanziaria, tenuto anche conto della crisi bancaria latente nell’Eurozona con epicentro in Germania.

 

Rapporto Diritti Globali: Il 2019 è stato caratterizzato dal ritorno della parola “dazi”, uscita dal vocabolario economico da decenni. Il neoliberismo contempla questo ritorno o si tratta del sintomo di una patologia del sistema capitalista?

Marcello Minenna: è abbastanza evidente che il sistema neoliberista che era emerso dalle crisi petrolifere degli anni Settanta è entrato in crisi profonda con la grande recessione e in questo decennio non è stato capace di autoriformarsi con successo. Il neoliberismo e l’espansione del commercio globale hanno offerto soluzioni efficienti 40 anni fa per permettere al mondo industrializzato di venire fuori dalla trappola della stagflazione e della disoccupazione; ma adesso i costi associati a un’industria finanziaria ipertrofica e deregolamentata e a una globalizzazione selvaggia superano ampiamente i benefici. La tendenza verso una deglobalizzazione è oramai piuttosto chiara e guidata da cause profonde, quali la transizione demografica in atto nelle economie sviluppate. Nuove soluzioni devono emergere e sembra che lo faranno in un contesto macroeconomico caratterizzato da maggiore protezionismo e localizzazione della produzione e degli scambi.

 

RDG: Lo scontro Stati Uniti-Cina ha avuto conseguenze negative sulla crescita economica in tutto il mondo. La struttura della World Trade Organization (WTO) e le altre organizzazioni internazionali si sono mostrate totalmente impotenti. Vanno riformate nell’ottica di un quadro globale assai modificato?

MM: Occorre essere franchi nell’analisi e ammettere che il successo di queste strutture sovranazionali dipendeva essenzialmente dal supporto degli USA, che avevano tutto l’interesse a promuovere l’espansione del commercio globale e l’utilizzo del dollaro come valuta di riserva globale per poter sostenere a costi minimi un deficit semi-permanente delle partite correnti. Senza il sostegno politico USA, il WTO è un’organizzazione vuota che non è in grado di imporre in nessun modo la sua agenda; l’attivismo del presidente Donald Trump nel perseguire accordi bilaterali con i principali partner globali serve proprio allo scopo di svuotare il WTO dell’autorità e dell’autorevolezza necessarie. L’idea di una rete di scambi commerciali completamente libera e deregolamentata è, d’altronde, un’ideologia di chiaro stampo politico e non un principio astratto scientificamente valido in tutte le epoche e tutti i contesti. Non prevedo un futuro roseo per queste organizzazioni; più facile una progressiva smobilitazione a lungo termine.

 

RDG: L’Europa continua a essere il fanalino di coda della crescita globale. Si tratta di una debacle strutturale o ci sono altre ragioni congiunturali? Cosa dovrebbe fare la nuova Commissione Europea per rilanciare lo sviluppo?

MM: L’Europa ha un chiaro problema di declino demografico, che è destinato a peggiorare negli anni. La popolazione è in rapido invecchiamento e questo favorisce una bassa crescita di PIL e inflazione, che difficilmente la politica monetaria può essere in grado di contrastare.

L’Eurozona ha inoltre un modello di sviluppo fortemente sbilanciato verso l’export, che rende la nostra area valutaria molto esposta alle variazioni improvvise del commercio globale e della domanda estera; questo è un tipo di distorsione indotto dal bias normativo verso l’austerity e la deflazione iscritto nei Trattati dell’Unione Europea. D’altronde, se si impongono dei limiti alla crescita della domanda interna, l’unica forma di sviluppo possibile è aprirsi verso i mercati esteri, accrescendo la propria competitività attraverso una compressione dei redditi da lavoro e dei salari.

Un altro effetto deleterio è rappresentato dalla cronica mancanza di investimenti che sta erodendo velocemente lo stock di capitale industriale e infrastrutturale costruito nel secondo dopoguerra. La Germania rappresenta la nazione dove tutti questi fattori sono più esacerbati; non a caso è l’economia che sta soffrendo di più al mondo per questo rallentamento in corso degli scambi globali. Mentre il problema demografico è un predicamento su cui non si ha molto controllo e che bisogna gestire, la propensione all’austerity permanente può essere corretta attraverso una modifica concordata dei Trattati e un rilancio su larga scala degli investimenti infrastrutturali. Lì il problema è politico, e dipende dallo sbilanciamento dei poteri all’interno della Commissione. Finché la Germania dominerà i posti chiave dell’Unione e conserverà il bias normativo verso l’austerity, non bisogna aspettarsi granché dalla Commissione e dalle altre istituzioni comunitarie.

 

RDG: Con l’addio di Mario Draghi e l’arrivo di Christine Lagarde alla BCE potrebbe cambiare la politica monetaria espansiva europea? Se Trump riuscirà a convincere la Fed ad abbassare i tassi quale scenario economico potrebbe aprirsi per i prossimi anni?

MM: Il mercato valuta l’arrivo di Christine Lagarde in sostanziale continuità con il lavoro di Draghi. D’altronde, il presidente uscente BCE ha reso l’avvio del mandato della Lagarde più semplice, dichiarando in anticipo l’orientamento espansivo della banca centrale. Storicamente, durante il suo mandato al FMI, la Lagarde si è mostrata favorevole a un intervento attivo delle banche centrali in funzione di stimolo all’economia, quindi c’è ragionevolmente da attendersi che si comporterà da “colomba”, forse addirittura in maniera più accentuata rispetto all’equilibrio misurato di Mario Draghi.

La Fed ha già iniziato un nuovo ciclo di allentamento monetario, anche se in maniera riluttante, e probabilmente sarà costretta a tagliare i tassi in maniera più accentuata, stretta a tenaglia dalle pressioni di Trump da un lato e quelle del mercato – che si aspetta almeno tre ritocchi entro il 2019 – dall’altro. Lo scenario macroeconomico che si sta delineando è quello di un’accentuazione della situazione di tassi zero o profondamente negativi in tutto il mondo, in un contesto di bassa inflazione e bassa crescita del PIL.

 

RDG: In questo quadro l’Italia continua a essere il Paese con la più bassa crescita nell’intero OCSE. Cosa servirebbe per invertire una tendenza ormai pluridecennale con governi di ogni tipo?

MM: L’Italia condivide con il resto dell’Eurozona molti problemi strutturali, tra cui l’accentuato invecchiamento demografico che blocca la crescita della domanda e dei consumi, frena gli investimenti e induce un tasso di inflazione molto basso. In più, l’Italia ha il problema dello stock di debito accumulato, che sostanzialmente blocca l’utilizzo attivo della politica fiscale per stimolare in maniera significativa la domanda. Parlare di piena inversione di tendenza è ormai molto difficile; di sicuro il Paese beneficerebbe enormemente di uno stimolo massiccio agli investimenti: infrastrutture civili e industriali, manutenzione del territorio. Si tratta di spese che, in un contesto economicamente depresso e caratterizzato da un eccesso di offerta di lavoro, hanno un moltiplicatore altissimo; la scala degli interventi che sarebbero necessari è tuttavia molto vasta e non compatibile con gli attuali stringenti vincoli di bilancio, imposti non solo dalla normativa europea ma anche da banali considerazioni di sostenibilità del debito.

 

RDG: Dagli Stati Uniti all’Europa ormai tanti parlano di “Green new deal”. Al di là della retorica, dal punto di vista economico e finanziario, si tratta di un progetto credibile?

MM: La scala degli interventi che sono stati paventati negli USA, oltre i 1.000 miliardi di dollari in un decennio, potrebbero essere sostenuti solo da un Paese in grado di finanziare il deficit attraverso una valuta di riserva; cioè solo dagli USA. E anche in questo caso il piano sembra assurdamente ambizioso. E’ ovviamente lungimirante investire massicciamente in energie rinnovabili cercando di differenziare il più possibile il proprio approvvigionamento energetico; lo è dal punto di vista ambientale, ma anche da quello geopolitico di sicurezza nazionale. Una maggiore diversificazione energetica aumenta la flessibilità e l’autonomia nazionali, insieme alla capacità di reagire meglio a eventuali crisi di approvvigionamento di alcune fonti, come il gas o il petrolio.

Purtroppo, è necessaria anche una forte dose di realismo: le energie rinnovabili sono di natura intermittente e funzionano solo se accompagnate da un robusto sviluppo delle fonti tradizionali di energia. Le reti elettriche non possono essere alimentate solo da fonti rinnovabili, pena forti problemi di stabilità e affidabilità. Si deve puntare al massimo sviluppo delle fonti rinnovabili, tenendo presente però che la loro incidenza non potrà mai raggiungere il 100% dell’energia prodotta, e che certi tipi di utilizzo richiedono necessariamente fonti di energia più stabili, come il nucleare, o concentrate, come il petrolio.

 

RDG: A dieci anni dalla grande crisi la finanza globale è stata finalmente regolata? I rischi di un altro choc sono reali? La lezione non è servita?

MM: Nell’immediato post-crisi, le misure intraprese dai governi andavano nella giusta direzione; il Dodd-Frank Act negli USA, l’istituzione del Fondo Salva-Stati nell’Eurozona, insieme al varo dell’Unione Bancaria erano tutti atti legislativi volti a migliorare la trasparenza e la stabilità del sistema finanziario mondiale. Tuttavia, passata l’emergenza della crisi, gli sforzi di riforma si sono progressivamente arenati in un cul-de-sac normativo a livello globale.

Da un lato, la finanza globale ha provato a più riprese a reintrodurre nuovi prodotti strutturati molto simili a quelli che avevano amplificato la crisi del 2007-2008, ma senza particolari successi. Dall’altro, il quadro macroeconomico è progressivamente cambiato: la discesa dei tassi di interesse a zero e lo choc deflazionistico del 2014-2015 hanno amplificato la “caccia ai rendimenti” dei fondi di investimento, fondi pensione e banche a livello mondiale. Il rischio si è di nuovo diffuso capillarmente nei gangli dell’economia globale, anche se stavolta tenuto a bada dall’assicurazione implicita offerta dai programmi di espansione monetaria delle banche centrali, che hanno offerto talmente tanta liquidità sul mercato da impedire che bolle speculative conclamate – come quella dello shale oil negli USA – potessero scoppiare.

Ora che il tentativo di normalizzazione dei tassi di interesse da parte delle banche centrali è abortito dappertutto c’è da attendersi un nuovo, prolungato periodo di tassi di interesse bassi, anche profondamente negativi. Questo permette al sistema attuale di sopravvivere senza particolari riforme, anche se l’altissimo debito accumulato nelle economie industrializzate ed emergenti rende sempre possibile un improvviso acutizzarsi della crisi finanziaria. Un ulteriore choc come Lehman Brothers è al momento ancora una possibilità remota, anche se è da tenere sott’occhio l’evoluzione di una crisi bancaria latente nell’Eurozona, con possibile epicentro stavolta in Germania.

 

RDG: A livello di big data la proposta di criptovaluta di Facebook come si colloca? Sono l’alternativa ai Bitcoin che sono in fase discendente?

MM: Su Libra si è scritto probabilmente anche troppo, considerato che l’idea è ancora in fase di progettazione. Certo, finalmente le banche centrali si sono rese conto che la diffusione della tecnologia blockchain e delle criptovalute non sono fenomeni marginali destinati a sparire in fretta. Libra ha un potenziale enorme per via del gigantesco bacino di utenti di Facebook nel mondo: 2 miliardi di persone, di cui i due terzi localizzati nei Paesi emergenti che non hanno mai utilizzato dei servizi finanziari come un conto corrente. In queste economie Libra potrebbe effettivamente essere una tecnologia dall’impatto esplosivo, in grado di influenzare in maniera imprevedibile le scelte di politica monetaria dei Paesi sovrani. Nei Paesi industrializzati la presenza di un settore finanziario già molto sviluppato e competitivo rende l’impatto potenziale di Libra più limitato a mio avviso; anche se l’idea di una valuta “apolide” gestita da un soggetto privato che non risponde politicamente a nessuno governo sovrano o istituzione sovranazionale rimane l’aspetto più controverso di Libra che necessita attenzione e una regolamentazione attenta.

Per quanto riguarda i Bitcoin, mi guarderei bene dal definire il fenomeno in declino; a dieci anni dalla nascita la criptovaluta più diffusa al mondo è stata dichiarata defunta già troppe volte. Eppure, il trend di valore e di utilizzo è tutt’ora in ascesa, sebbene ci siano delle limitazioni strutturali che probabilmente impediranno una diffusione massiccia a livello globale. A mio avviso è più probabile che Bitcoin trovi successo come asset non convenzionale simile a un oro digitale; riserva di valore in grado potenzialmente di proteggere i patrimoni da scelte arbitrarie di politica monetaria da parte delle banche centrali. Ovviamente per raggiungere questo risultato Bitcoin dovrebbe ridurre la sua volatilità di un fattore di almeno 100 volte; al momento resta solo un veicolo speculativo astratto privo di valore intrinseco.

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Marcello Minenna: economista, nato a Bari nel 1971, ha come principale campo di studi l’analisi quantitativa. È docente non accademico all’Università Bocconi di Milano e Lecturer alla London Graduate School of Mathematical Finance. Dopo la laurea alla Bocconi, nel 1999 ha conseguito un master in “Arts in mathematics of finance” alla Columbia University di New York. Dal 2007 è responsabile dell’ufficio Analisi Quantitative e Innovazione Finanziaria alla CONSOB. Dal 2018 è Responsabile della Task force Mifid2 del Comitato per l’Analisi Economica e dei Mercati (CEMA) dell’ESMA. Nel 2017 stato membro degli “Stati generali contro la criminalità organizzata” al ministero della Giustizia. Nel 2016 è stato assessore al Bilancio del Comune di Roma. È editorialista di vari quotidiani, tra cui “Il Sole-24Ore” e il “Financial Times”. Tra i suoi libri: The Incomplete Currency (Wiley, 2016) e La moneta incompiuta (Ediesse, 2013).

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* Intervista pubblicata nel 17° Rapporto Diritti Globali[1] – “Cambiare il sistema”, a cura di Associazione Società INformazione[2], Ediesse editore.
Il volume, in formato cartaceo può essere acquistato anche online: qui[3]
è disponibile anche in formato digitale (epub): acquistalo qui [4]

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Endnotes:
  1. 17° Rapporto Diritti Globali: https://www.dirittiglobali.it/17-rapporto-sui-diritti-globali-2019/
  2. Società INformazione: https://www.dirittiglobali.it/chi-siamo/
  3. qui: https://www.ediesseonline.it/prodotto/rapporto-sui-diritti-globali-2019/
  4. qui : https://www.ediesseonline.it/prodotto/rapporto-sui-diritti-globali-2019-ebook/

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2020/03/leconomia-mondiale-e-sempre-piu-a-rischio-intervista-a-marcello-minenna/