Pandemia. Reddito di base, un’utopia concreta, un’esigenza immediata
Pubblichiamo qui una sintesi del Focus del secondo capitolo del 17° Rapporto sui diritti globali, curato da Società INformazione Onlus e pubblicato da Ediesse. Il Focus è dedicato a una panoramica e una ricostruzione del dibattito e delle sperimentazioni del reddito di base. Una questione sinora elusa in Italia o addirittura mistificata con l’introduzione di un sussidio condizionato, una misura di workfare spacciata quale Reddito di cittadinanza.
La pandemia in corso rende non solo attuale ma drammaticamente urgente e non più rinviabile l’introduzione di un vero reddito di base incondizionato. «Non chiediamo una misura una tantum. Il reddito va esteso in maniera incondizionata su base individuale, non familiare», chiarisce Sandro Gobetti del Bin Italia che ha promosso una petizione sottoscritta da migliaia di persone e che ha collaborato al Rapporto sui diritti globali 2019, uscito lo scorso dicembre, anticipando il dibattito in corso in questi giorni. Un contributo a farlo uscire dalle astrattezze e da vecchi schieramenti per individuare e sostenere politiche sociali e misure contro povertà e impoverimento all’altezza delle necessità, nell’ottica di un diritto universale alla salute e al reddito che la pandemia da Coronavirus ha reso drammaticamente più impellente e concreto.
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Sperimentazioni nel mondo, esperienze europee e il contesto italiano
Una delle sfide più complesse ma anche più interessanti che la contemporaneità sembra averci affidato ha a che vedere con la visione che deve spingersi a immaginare nuovi equilibri con il tema dell’economia, del lavoro, della giustizia sociale, dell’ambiente, della natura, della libertà e dei diritti umani universali. Viviamo in un mondo nuovo riplasmato da numerose forze: la dirompente rivoluzione tecnologica, la globalizzazione dei mercati, delle migrazioni e della comunicazione; la crescita impetuosa della domanda mondiale di beni ed i limiti imposti dall’esaurimento delle risorse naturali; la crisi delle tradizionali istituzioni di protezione sociale e le interazioni, a volte esplosive, di queste differenti forze. Il sovrapporsi in un’unica fase storica di differenti cicli di crisi, trova oggi una strana forma di contemporaneità e coesistenza.
Negli ultimi decenni. Come direbbe Manuel Castells, «la forma tradizionale del lavoro, basata su occupazione a tempo pieno, mansioni univoche e normate e una carriera definita sul ciclo di vita si sta sgretolando in modo lento ma certo». È questo un processo di radicale mutamento del rapporto tra forme di vita e ruolo del lavoro nel percorso esistenziale, descritto dalla narrativa sociologica sulle forme del lavoro precarie, intermittenti, flessibili, temporanee.
In particolare nel continente europeo, nel passaggio a una società post-industriale del terziario avanzato e dei servizi, si è verificata una progressiva e inarrestabile incapacità di provvedere alla protezione e alla sicurezza delle persone. E’ venuto meno quel patto che edificava l’Europa sociale nella società salariale. Prende invece corpo l’idea di una nuova regolazione in regime di economia di mercato, basato sulla concorrenza tra imprese, istituzioni e un cittadino pensato principalmente come consumatore e imprenditore di se stesso.
Nel mezzo di questa nuova grande trasformazione, piena di incognite e che rende incerti molti punti di riferimento, si apre forse un terreno d’azione nuovo e che pone la proposta del reddito di base come una delle chiavi per entrare con fiducia nel XXI secolo.
Per chiarire meglio, si intende con reddito di base (Basic Income nella definizione del dibattito internazionale e RdB d’ora in poi) un erogazione monetaria attribuita da un’autorità pubblica a tutte le persone, indistintamente, senza alcun obbligo ad accettare un lavoro, senza alcuna specificità categoriale o un requisito reddituale o patrimoniale. In sostanza si tratta di un reddito destinato a tutti gli esseri umani in quanto diritto fondamentale, erogato per tutta la vita. Per questo viene definito incondizionato e universale.
Il RdB si differenzia dal reddito minimo garantito che è una somma monetaria, attribuita da parte di un’autorità pubblica a tutti i cittadini, o residenti in un paese, che versano in uno stato di bisogno (individuale e/o familiare) o che sono a rischio povertà. Questo viene erogato a fronte di una prova che attesti lo stato di bisogno economico (means test). E’ spesso subordinato alla disponibilità a cercare lavoro, ad accettare impieghi o seguire percorsi formativi da parte del beneficiario. Non ha di regola una scadenza prefissata, viene erogato fino al miglioramento della condizione economica. La finalità del reddito minimo garantito è quella di garantire una quota economica minima come base di un’esistenza dignitosa e sono numerosi i paesi europei che hanno in vigore questa misura.
REDDITO DI BASE, TUTTO IL MONDO NE PARLA (E LO SPERIMENTA)
La proposta si nutre di esperienze passate, di analisi del presente e si proietta nel futuro, attraversando i continenti, grazie alle numerose sperimentazioni che in questo testo accenneremo così da mostrare l’interesse che riscuote.
Una delle più importanti esperienze è quella realizzata in Namibia, in Africa, tra il 2008 e il 2009, nell’area di Otjivero con l’erogazione mensile di 100 dollari namibiani (circa 13 dollari americani) a 930 residenti di età inferiore ai 60 anni. Dallo studio realizzato a valle, emerse che la soglia di povertà passò dal 76%, al 37%, la disoccupazione dal 60% al 45% con un aumento delle attività economiche e di piccole imprese. I bambini sottopeso passarono dal 42% al 10%. Aumentò l’uso dei servizi sanitari e finalmente si ebbe accesso ai farmaci contro l’HIV. Con una quota parte del RdB, si realizzò una cassa comune per compiere migliorie nella comunità. Mentre in Kenya l’organizzazione non governativa Give Directly con un crowdfunding, al quale hanno partecipato anche diversi filantropi delle imprese tecnologiche, ha raccolto circa 30 milioni di dollari per una sperimentazione in 120 villaggi, per i prossimi 12 anni e che vedrà erogare un RdB ad oltre 16 mila persone, in maniera incondizionata.
Negli Stati Uniti, la città di Stockton in California, ha avviato nella primavera del 2019 una prima fase sperimentare per le fasce più povere della città. Agli inizi del 2018 invece, in Canada, 4000 cittadini hanno ricevuto un RdB di circa 17 mila dollari l’anno a persona. La sperimentazione ha voluto valutare l’effetto sulla salute delle persone, sul benessere generale ma anche sulla produttività.
Dal 2012 al 2013, in India, il più grande sindacato di donne, il SEWA (Self Employment Women Association) e l’UNICEF, lo hanno sperimentato in 20 villaggi rurali in Madhya Pradesh. Gli incredibili e positivi risultati hanno spinto il governo indiano ad avviare studi di fattibilità per la sua estensione ed il tema è entrato nel dibattito elettorale del 2019. Nel piccolo stato del Sikkim, intanto, il governo ha avviato un percorso per una sperimentazione su larga scala già dal 2020. Sempre in Asia, in Corea del Sud ha preso il via il progetto Youth Basic Income Program con l’introduzione, nella provincia di Gyeonggi, di un RdB destinato ad oltre 170 mila giovani basato sull’erogazione di una speciale moneta che può essere spesa nel circuito commerciale provinciale.
Anche a Marica, in Brasile, dal 2016, viene erogato un RdB attraverso una moneta locale, il Mumbucas, che può essere spesa nei negozi, nei mercati e per i servizi comunali. Destinata a circa 14 mila cittadini, da luglio 2019 coinvolgerà oltre 50 mila persone (su 150 mila residenti). Si tratta di un reddito individuale ed incondizionato di circa 130 Reais al mese (circa 31 euro) sostenuto, in parte, dalle royalties dell’estrazione petrolifera.
Tra le altre iniziative assume un ruolo di primo piano quella realizzata in Finlandia dal 2017 al 2018. In questo caso la sperimentazione, promossa dal governo, ha coinvolto 2000 persone. L’Istituto finlandese per la protezione sociale, Kela, pubblicherà i risultati a fine 2020.
Nel 2018, in Francia, 13 dipartimenti regionali hanno proposto di sperimentarlo a livello locale e nel marzo 2019 la città di Grand-Synthe ha avviato il percorso per introdurlo su scala comunale.
Tuttavia è l’Alaska il paese al mondo cha ha introdotto un modello di reddito universale ed incondizionato riconosciuto anche dalla Costituzione: il Permanent Fund Dividend. Uno schema nato dal dibattito di metà anni Settanta, su come redistribuire la ricchezza generata dall’estrazione di petrolio e, nel 1982, venne realizzato un fondo in cui convogliare parte dei profitti da redistribuire ai cittadini. Si tratta di una somma monetaria, erogata annualmente, destinata a tutti i residenti. Attualmente circa 650.000 persone ricevono un importo che varia in ragione del rendimento del fondo, ma la somma stabilita è uguale per tutti. Dai primi anni del Duemila ha raggiunto la cifra di oltre 2.000 dollari a persona.
Questo intenso dibattito si nutre anche di una certa trasversalità politica, culturale e sociale degli attori in campo.
Mark Zuckemberg, il fondatore di Facebook, nel 2017 ha girato l’Alaska per conoscere più da vicino il Permanent Dividend Fund, proponendo di estenderlo in tutti gli altri stati, mentre Sam Altman, presidente della società americana Y Combinator, ha avviato uno studio per testarlo ad Oakland in California. L’interesse di alcuni dei più noti venture capitalist delle imprese tecnologiche sta interrogando molti. Elon Musk e altri sostengono il RdB per andare incontro all’avvento della robotica e dell’intelligenza artificiale. L’economista ed ex ministro del lavoro del governo Clinton, Robert Reich, lo definisce «uno degli interventi più urgenti della nostra epoca». Per le elezioni americane del 2020, l’imprenditore Andrew Yang, tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti per i Democratici, propone un Freedom Dividend di 1.000 dollari al mese, per contrastare la disoccupazione derivante dall’emergente automazione del lavoro; la proposta prevede una maggiore tassazione delle imprese tecnologiche. Tra le altre iniziative citiamo anche la piattaforma del movimento Black Lives Matter in cui il RdB viene definito un «risarcimento alla condizione di disagio economico a cui gli afro-americani sono costretti essendo esclusi dal mercato del lavoro».
In Sud Africa, durante le elezioni del 2019, il tema si è imposto grazie alle iniziative del movimento dei disoccupati che ha raccolto migliaia di sostenitori.
Sicuramente importante è l’esperienza del referendum propositivo in Svizzera del giugno 2016 che formulava la domanda «sei d’accordo che venga introdotto un reddito di base per tutti?». Il No prevalse, ma il Sì raggiunse il 23%. Per i proponenti, fu un enorme ed inaspettato risultato, tant’è che si disse «hanno vinto i No ma festeggiano i Sì».
In Germania l’interesse è cresciuto dopo la riforma del welfare e del lavoro, Hartz IV, dei primi anni del 2000. Sono numerose le attività delle reti sociali, come quella di Mein Grundeinkommen in cui, attraverso un crowdunfing, sono stati raccolti i fondi per un RdB di 1.000 euro al mese da destinare a 100 persone in maniera incondizionata. Lo studio che lo accompagna si focalizza sulle dimensioni sociali e culturali che ha attivato.
In Gran Bretagna il tema ha coinvolto anche il mondo sindacale tanto che il Trade Union Congress nel 2016 ha votato una mozione in sostegno alla proposta avviando studi sul legame tra il futuro del lavoro ed il RdB. Nel 2019 i consigli comunali delle città di Liverpool e Shieffield, si sono espressi in favore di una sperimentazione locale anche grazie all’impegno di numerosi esponenti laburisti, come John McDonnel, avviando così un nuovo dibattito all’interno del partito di Jeremy Corbyn.
Le iniziative da riportare sarebbero ancora moltissime, ma terminiamo qui il nostro percorso non prima di ricordare l’iniziativa Citizens Climate Initiative, nata nel 2019, per una Carbon Tax europea destinata a sostenere il finanziamento di un reddito di base.
IL RITORNO IN ITALIA. TRA RITARDI STORICI E OPPORTUNITÀ NUOVE
Il ritardo italiano, anche solo in merito alla misura del reddito minimo garantito presente in molti paesi europei, non è stato colmato dalle diverse proposte di questi ultimi anni. Eppure, già nel lontano 1995, la Commissione di indagine sulla povertà e sull’emarginazione, promossa dalla Presidenza del Consiglio, indicava la necessità di introdurre un «minimo vitale» per «coloro che hanno entrate al di sotto di tale minimo». Nel 1997 nel rapporto della cosiddetta Commissione Onofri, si proponeva di affrontare la «grande anomalia della situazione italiana» in rapporto ai paesi europei, cioè all’assenza «di uno schema di reddito minimo» e per questo si proponeva una misura universalistica come un diritto soggettivo.
I lavori delle due Commissioni furono propedeutici alla sperimentazione nel 1998, in 300 comuni, del cosiddetto Reddito Minimo di Inserimento destinato ai capofamiglia e in territori spesso al limite del collasso. Questa esperienza si concluse con il cambio di governo nel 2002 ed il successivo spostamento dei fondi verso ammortizzatori sociali per i soli lavoratori con contratto nazionale e il sostegno alle imprese.
Negli anni seguenti, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, molte Regioni affrontarono il tema. Tra queste va segnalata la Regione Lazio con la legge 4/2009 che istituì un reddito minimo garantito per «inoccupati, disoccupati e precariamente occupati» creando per la prima volta il legame tra il reddito garantito e quelle figure sociali, come i precari, che fino ad allora non avevano mai avuto menzione nelle misure di sostegno.
Malgrado i tanti ritardi e la ritrosia delle parti politiche, nel dibattito italiano c’è stato un certo protagonismo sociale, sia teorico che di iniziativa pubblica. Il mondo dell’associazionismo e dei movimenti sociali è stato sicuramente meno statico, più coraggioso ed innovativo arrivando a proporre anche leggi di iniziative popolare ancora oggi ferme in Parlamento. Le idee più interessanti germogliate da questa attivazione, hanno generato di volta in volta analisi e proposte nuove, come il neonato dibattito tra reddito ed innovazione tecnologica, il legame tra il diritto all’abitare ed il reddito proposto dai movimenti di lotta per la casa, o il reddito di autodeterminazione del movimento delle donne “Non Una di Meno”.
L’introduzione nel 2019 del cosiddetto Reddito di cittadinanza (d’ora in poi RdC), mostra ancora diverse ombre: non riesce a raggiungere la vasta platea di coloro che ne avrebbero bisogno e, per la sua articolazione, non è possibile annoverarlo tra gli schemi di stampo europeo e nemmeno al dibattito internazionale. La riformulazione del welfare verso schemi di reddito di base e una nuova politica redistributiva in grado di definire un nuovo patto sociale, in Italia, non trova ancora riscontri significativi. Uno dei maggiori limiti del RdC è che non sia stata incardinato in una nuova politica fiscale. Vi sono poi i limiti all’accesso e gli obblighi all’attivazione come quello ad accettare qualsiasi lavoro pena la perdita del beneficio. Questo, come insegnano altre esperienze europee, rischia al contrario di aumentare lavori a tempo e senza qualità. Come ricorda l’European Anti Poverty Network: «limitazioni all’accessibilità significa riduzione della platea dei richiedenti solo a vantaggio di un risparmio di risorse finanziarie». Un meccanismo già noto nel taglio delle misure di reddito minimo in Europa. Studiosi come Hugh Frazer e Eric Marlier già nel 2009 sottolineavano che «limitare l’accessibilità ed aumentare gli obblighi verso i beneficiari, ha determinato, negli ultimi anni, una fuoriuscita di milioni di persone dai sistemi di sostegno aumentando la platea dei nuovi poveri».
Anche il dibattito istituzionale e tra l’opinione pubblica, è stato spesso accompagnato da un narrazione concentrata per lo più su due aspetti: i costi (con il sempre verde «ma ci sono le coperture?») e gli obblighi dei beneficiari («coloro che lo riceveranno non staranno sui divani»). L’approccio paternalistico, moralizzatore, educativo sembra aver avuto la meglio rispetto alle ragioni e le potenzialità del diritto al reddito. Tale approccio in parte è ricaduto nell’articolato di legge. La tesi «non staranno con le mani in mano a poltrire sui divani» definisce un’immagine esemplificatrice dei beneficiari: poveri per causa del loro poco impegno. Un approccio, purtroppo, simile anche ad altre forze politiche. Nel 2016 il governatore della Puglia Michele Emiliano ad esempio, quando introdusse un sostegno al reddito per le famiglie in difficoltà, dichiarò che «ciascuno di coloro che sarà sottoposto al programma dovrà rendere. Se necessario anche andando a pulire giardini, a tagliare i banani di una scuola, o a gestire lavori umili». Lo stesso accadde per il Reddito di Inclusione del Governo Gentiloni, in cui tutto il nucleo familiare era chiamato a sottoscrivere un patto che obbligava ad accettare qualsiasi proposta di lavoro. In questo caso, l’idea “creativa”, fu quella di dare un ruolo (e lauti finanziamenti), al settore del privato sociale per “prendere in carico i poveri”.
L’introduzione, nel RdC, di severi approcci sanzionatori con pene che vanno dai due ai sei anni di reclusione, rimandano, come ricorda Robert Riverso sulle pagine di Questione Giustizia, a un «governo penale dei poveri» in cui rimane «difficile poter considerare proporzionata o ragionevole una pena di tali dimensioni […] svincolata dalla reale entità del fatto che si giustifica come pena esemplare ed espressione di un rigorismo sanzionatorio sproporzionato e teso ad ottenere consenso». Eppure la Risoluzione del Parlamento Europeo del 2009 sul ruolo del reddito minimo ricorda che: «la causa di un’apparente esclusione dal mondo del lavoro può risiedere nella mancanza di sufficienti opportunità occupazionali dignitose piuttosto che nella mancanza di sforzi individuali». In molti sembrano non tenere in considerazione ciò che Chiara Tripodina scrive sulle pagine di Costituzionalismo.it e cioè che un reddito minimo possa essere un «risarcimento per mancato procurato lavoro come dovere della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’esistenza». Con l’approccio paternalistico si fa un’operazione di auto-assoluzione politica, rigettando così la condizione di povertà sull’individuo che non si è impegnato a dovere.
Nel solco di queste riflessioni va però dato atto al promotore Movimento 5 Stelle, quantomeno di aver imposto al dibattito e all’agenda politica un tema che da troppi anni, si continuava ad ignorare ed il RdC potrebbe ancora oggi rappresentare una salutare irruzione nel grigiore del dibattito politico culturale italiano.
L’istituzione del RdC ci offre dunque anche dei punti di partenza. La Risoluzione del Parlamento Europeo del 2010 invita a realizzare progressi «nell’ambito dell’adeguatezza dei regimi di reddito minimo garantito, affinché siano in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa». Individualità del diritto, dunque, per garantire ai singoli uno ius existentiae in grado di sostenere l’autonomia, la dignità e la libertà di scelta della persona; accessibilità attraverso parametri che non siano discriminatori, o peggio che l’organizzazione tecnica e amministrativa per fare richiesta diventi una sorta di lotteria, che stigmatizza socialmente i beneficiari; garantire mezzi di sussistenza necessari e la possibilità di avere un’esistenza appagante e per una partecipazione libera alla vita pubblica e sociale. Questi alcuni elementi che dovrebbero emergere. Le persone libere di scegliere e di autodeterminarsi possono migliorare, oltre che la propria condizione, una società nel suo complesso. Nelle maglie della proposta troviamo inoltre già alcune formule interessanti e da implementare, come quella della «congruità del lavoro proposto» e l’attenzione per coloro che svolgono attività di cura e che, in funzione di questo, non devono essere sottoposti ad obblighi lavorativi.
Nell’era della quarta rivoluzione industriale, del post-work in cui pare emergere un lavoro senza fine ed una forza lavoro costretta dentro nuovi meccanismi di sfruttamento, tra capitalismo digitale e nuova economia del web, il cittadino globale, come direbbe Zygmunt Bauman, di fronte alle grandi sfide ed alle contraddizioni della contemporaneità, sembra essere sempre più solo nel mancato rapporto con forze politiche e sociali che sembrano non riuscire ad entrare in sintonia con questa trasformazione, e non in grado di agire una critica radicale alla facilità con cui il neoliberismo si è imposto nella società dal punto di vista anche culturale.
Avanzare dunque nuove proposte per estendere il RdC, ampliare la platea, aumentarne l’impatto, può rafforzare sia il dibattito che la misura stessa. Così come avvenuto in altri paesi, lo studio di buone pratiche ed esperienze internazionali, può essere un esercizio utile per individuare percorsi nuovi. Anche perché, e questa forse è la più grande opportunità che l’introduzione del RdC in Italia ci consegna, oggi milioni di persone ne parlano e questo significa riconoscere la sintonia tra l’idea di un nuovo diritto economico con la società stessa. Valorizzare il piano culturale che sostiene le ragioni del reddito diventa strategico quanto la sua introduzione per legge. Un reddito garantito può liberare le catene della sopravvivenza, ed essere strumento per passare dal ricatto all’opportunità. Un reddito garantito, significa compiere un primo passo e permetterci di guardare al presente ed al futuro con rinnovato ottimismo. Verso un diritto universale.
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Sandro Gobetti, Svolge attività di ricerca in diversi progetti europei e per altre istituzioni. Coordinatore e socio fondatore dell’associazione Basic Income Netowrk Italia, nodo della rete mondiale BIEN. Autore di numerosi articoli, studi, curatele e pubblicazioni sulle trasformazioni del mondo del lavoro e del welfare, tra cui i Quaderni per il Reddito. Esperto degli schemi di reddito minimo in Europa, ha collaborato alla realizzazione della legge 4/2009 per un reddito minimo garantito nella Regione Lazio. Autore, nel 2018, insieme a Luca Santini del volume Reddito di base tutto il mondo ne parla (Goware).
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* Dal 17° Rapporto Diritti Globali – “Cambiare il sistema”, a cura di Associazione Società INformazione, Ediesse editore.
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