«Perlopiù» morti. 13 persone ridotte a cose
Mai come al tempo del Coronavirus è divenuto a tutti facile capire quanto siano fondamentali la sanità pubblica e la prevenzione: da un quarto di secolo viene invece falcidiata la prima e trascurata la seconda. Altrettanto determinante è l’informazione corretta e tempestiva sulla pandemia; tanto più in quel luogo scuro e separato che continua a essere il carcere. In queste settimane anche lì si è visto come errori, ritardi e sottovalutazioni producono disastri e perdita di vite.
Si è tornati indietro di decenni, con detenuti sui tetti e celle bruciate. Ma con la non piccola differenza, rispetto ad allora, che ben pochi si sono premurati di approfondire l’accaduto, ragionare sulle sue cause, chiedere spiegazioni ai poteri competenti (si fa per dire). Rese tanto più necessarie dalla morte di ben 13 persone detenute. La storia italiana (e non solo) della seconda metà del Novecento ci aveva insegnato come silenzi e bugie di Stato siano spesso la regola. Ma è forse la prima volta che, di fronte a fatti tanto gravi, opacità e reticenze di ministri e governi in carica non trovano significativa attenzione e opposizione.
Il ministro della Giustizia, informando il Parlamento, sul punto si è limitato a un inquietante inciso, sostenendo che i decessi «sembrano perlopiù riconducibili ad abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini». Poche parole, all’incirca una per ogni morto, che non spiegano nulla e omettono tutto. Neppure un vago accenno alle altre cause, oltre a quella dichiarata principale.
Non un dettaglio, nessun chiarimento. Neppure lo sforzo di indicare i nomi: l’identità dei 13 solo dopo parecchi giorni sarà resa nota da un giornalista. Undici nordafricani, slavi, latinoamericani, due soli italiani. In qualche caso pene scontate quasi per intero, in altri ancora in attesa di giudizio. Chi sia morto per cosa, non è dato però sapere. Il ministro non dice e nessuno domanda. Le obiezioni più accese in Senato hanno piuttosto invocato maggior repressione, giungendo ad accusare il governo di voler «legalizzare la droga».
Come non fossero pubblici i dichiarati propositi del ministro dell’Interno attuale di mandarne ancora di più in galera per fatti di droga, in perfetta continuità di intenti con il suo predecessore. Quello dei tossicodipendenti in carcere, principale causa del sovraffollamento assieme al piccolo spaccio – come ben documenta il Libro Bianco sulle droghe, curato dalla Società della Ragione e altre associazioni –, continua a essere tema falsato e dolosamente omesso dal confronto politico.
Nessuna riflessione o interrogativo ha suscitato il fatto che così tanti detenuti siano morti perlopiù per l’assunzione smodata di metadone, un potente analgesico, sostituto di sintesi dell’eroina, usato a scopo terapeutico. Un farmaco che aiuta a superare le astinenze e attutisce dolore e sofferenze, che sono la condizione usuale e perenne del prigioniero, tossicodipendente o meno.
Pur in tempi assai difficili e luttuosi per la società libera, ci si sarebbe aspettati che la reazione, politica e amministrativa, di fronte all’inedita strage fosse appunto e semmai di provare a ridurre quella sofferenza, amplificata dai timori per l’epidemia e dalle misure di ulteriore isolamento imposte ai reclusi. Un isolamento ben diverso, integrale e spossessante, da quello cui siamo tutti costretti dal coronavirus: lì si è non solo reclusi ma ridotti a cose, distrattamente ammucchiate in una stanza.
Se il ministro omette, parla d’altro e guarda altrove, dal capo del DAP nulla è pervenuto. Assente non giustificato.
Di nuovo e sempre, tocca allora provare a costruire verità e giustizia dal basso. È quello che si propone il Comitato nato a questo scopo, che ha raggiunto 500 adesioni in due soli giorni (https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello/). Non sarà facile, ma occorre provarci.
* Fonte: Sergio Segio, il manifesto
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