Siria. Erdogan cambia strategia e chiede a Trump: «Datemi i Patriot»
E nel paese cresce il malcontento, primi arresti tra chi contesta l’invasione della Siria
Ieri pomeriggio i ministri del governo turco si sono divisi i funerali dei 33 soldati uccisi giovedì notte a Idlib. Il ministro degli interni Soylu è andato ad Hatay, quello della difesa Akar a Osmaniye per commemorare i militari e gettare un po’ di nazionalismo sullo scontento della parte di opinione pubblica a cui non piace veder tornare bare dalla Siria.
Sono già più di 140 gli intellettuali, gli artisti, i politici, i sindacalisti, i giornalisti firmatari della petizione per interrompere subito l’invasione della Siria: «La nostra presenza militare deve finire una volta per tutte e i nostri soldati devono essere riportati a casa», scrivono.
Intanto le bare aumentano: venerdì notte un altro soldato turco è rimasto ucciso nella provincia nord-ovest siriana, due i feriti. In un mese sono almeno 55 i militari morti in Siria. Dall’altra parte del confine, a Gaziantep, nel sud-est turco a maggioranza curda, si fermano le contestazioni con le detenzioni: secondo Ahval quattro persone sono state arrestate per aver scritto post di critica al governo, altre 22 sono indagate dalla procura, tutte accusate di insulti alle istituzioni e incitamento all’odio.
La strategia del presidente Erdogan è nota: alzare il livello dello scontro diplomatico e politico, visto che sul terreno rischia troppo. Ieri, da Istanbul, ha mandato a dire alla Russia di lasciar fare alla Turchia «quello che è necessario». Mettiti da parte, il messaggio al presidente Putin, lascia che siano i turchi a vedersela con l’esercito di Damasco: «Non siamo andati lì perché invitati da Assad. Siamo lì su invito del popolo siriano. Non intendiamo andarcene finché il popolo siriano non dirà ‘ok, è fatta’».
Nelle stesse ore però Ankara continuava negli incontri con la delegazione russa nella capitale per giungere a un accordo di cessate il fuoco a Idlib. Nel pomeriggio è stata Mosca a disegnare i contorni del dialogo in corso: «Entrambe le parti hanno confermato l’obiettivo di ridurre le tensioni sul terreno – fa sapere il ministero degli esteri russo – continuando la guerra ai terroristi riconosciuti come tali dal Consiglio di Sicurezza Onu». E l’intesa, aggiunge il ministero, sarebbe stata raggiunta, una ridefinizione dell’accordo di Sochi del settembre 2018 sulle zone di de-escalation e la graduale ritirata dei gruppi islamisti filo-turchi.
Ma di cessate il fuoco nemmeno l’ombra. Ieri nella città di Saraqeb, tornata nei giorni scorsi sotto il controllo delle opposizioni, le truppe turche avrebbero ucciso nove miliziani dell’Hezbollah libanese.
E mentre due ministri partecipavano ai funerali dei soldati a favor di telecamera, quello degli esteri Cavusoglu a Doha portava al segretario di Stato Usa Pompeo la richiesta di Ankara: due batterie di missili Patriot da usare lungo il confine contro l’aviazione siriana e la creazione di una no-fly zone sui cieli del nord-ovest siriano. Per fermare i caccia di Assad Erdogan non vuole usare i sistemi di difesa russi, gli S-400 che nei mesi scorsi hanno fatto scendere il gelo con la Casa bianca e sospendere l’invio di cento F-35 statunitensi.
Ora Erdogan si rivolge agli Stati uniti, provocando malumori nell’amministrazione Usa. Se James Jeffrey, inviato per la Siria, preme sul Dipartimento della Difesa perché i Patriot partano presto in direzione Ankara, il Pentagono non concorda, secondo diverse fonti sentite da Politico.
Non vuole immischiarsi nella disputa russo-turca, un intervento che – dicono le fonti – «avrebbe ramificazioni globali». A sentire il Dipartimento di Stato, quello che gli Usa possono fornire è un sostegno senza l’impiego di unità militari, al massimo condivisione di informazioni di intelligence.
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto
ph by Esercito degli Stati Uniti / Public domain
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