Emergenza e ecatombe: 190 operatori sanitari morti sul lavoro

by Andrea Capocci * | 29 Aprile 2020 9:25

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L’epidemia di Covid-19 è stata meno democratica di quanto sembri e alcune categorie sono state colpite più di altre. I dati sul contagio tra gli operatori sanitari sono impietosi: secondo l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), durante l’epidemia la percentuale di operatori sanitari nel totale dei contagi ha oscillato tra il 15 e il 20%, avvicinandosi al 10% solo nel mese di aprile. Gli infermieri rappresentano il 43% dei sanitari contagiati, i medici ospedalieri il 22%. E al numero ufficiale dei medici di famiglia contagiati (solo 150) si deve probabilmente aggiungere uno zero.

Lo suggerisce un’altra statistica drammatica, quella dei decessi. Secondo la Federazione degli Ordini sanitari i medici che hanno perso la vita durante l’epidemia al 24 aprile erano circa 150, per il 40% medici di base. Gli infermieri morti per il Covid-19 sono stati invece una quarantina per un totale di almeno 190 morti. E chi non si è ammalato e ha potuto continuare a lavorare, lo ha fatto in condizioni sanitarie e psicologiche durissime. Le cause del disastro sono state soprattutto organizzative, con un ritardo gravissimo nel fornire protezioni adeguate ai medici. Che l’epidemia partita dalla Cina sarebbe arrivata anche in Italia era prevedibile: già a metà gennaio a Wuhan era chiaro il potenziale di contagiosità del nuovo coronavirus. La task force governativa attivata il 22 gennaio – quando il Sars-Cov-2 già circolava in Italia – per molte settimane ha discusso soprattutto di controlli alle frontiere, termometri negli aeroporti e chiusura dei voli. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) aveva avvertito per tempo che i blocchi ai confini sarebbero stati inutili per impedire la pandemia, ricevendo in cambio l’accusa di complicità nei confronti del governo cinese.

La task force più importante, quella guidata da Domenico Arcuri e incaricata di procurare dispositivi di protezione e ventilatori polmonari, ha iniziato a lavorare solo il 18 marzo. Nel frattempo, medici e infermieri avevano dovuto combattere il virus a mani nude. Secondo il capo dipartimento della Protezione Civile Angelo Borrelli, durante la crisi il fabbisogno nazionale di mascherine è stato di circa tre milioni al giorno, un terzo delle quali per la Lombardia. Ma secondo gli stessi dati forniti da Arcuri, questi volumi di consegne sono stati raggiunti solo a fine marzo, quando l’emergenza aveva iniziato a calare. Alle insufficienze organizzative del periodo dell’emergenza si sono poi sovrapposte i problemi strutturali del sistema sanitario italiano, che hanno radici ben più profonde.

Secondo l’Iss, il virus ha iniziato a circolare in Lombardia già a metà gennaio. Se non è stato rilevato in tempo, è stato anche per la debolezza della medicina di territorio, cioè la rete di medici di base che rappresenta la prima sentinella di un focolaio epidemico. L’apprezzato modello sanitario lombardo è molto sbilanciato sugli ospedali. Dopo la provincia di Bolzano, la Lombardia è la regione italiana con il più basso numero di medici di base in rapporto alla popolazione (uno ogni 1400 residenti). In numero limitato e senza mascherine, i medici di base hanno faticato a garantire l’assistenza domiciliare oppure, quando l’hanno fatto, ne hanno pagato le conseguenze ammalandosi. Lo «tsunami» dei pazienti, che in parte avrebbe potuto essere curato a casa prima di aggravarsi, si è riversato sui pronto soccorsi, diffondendo il contagio negli ospedali tra pazienti e sanitari.

Reparti ordinari e terapie intensive, che disponevano a livello nazionale di 5000 posti letto già occupati per l’80-90% secondo le politiche di «razionalizzazione» della spesa sanitaria degli anni passati, si sono rapidamente riempiti. Lo sforzo sovrumano dei sanitari in poche settimane è riuscito a raddoppiare o quasi i posti di terapia intensiva fino ad utilizzare persino le sale operatorie. Ma una rianimazione non è fatta solo di monitor e respiratori: servono soprattutto medici e infermieri formati. E in Italia mancano, anche a causa di una carenza di posti nelle scuole di specializzazione denunciata da tempo, con 1500 medici che ogni anno vanno in pensione senza essere sostituiti.

Come si vede, oltre a mostrare la difficoltà di rispondere all’emergenza, la pandemia ha fatto emergere le carenze storiche di una sanità elogiata a livello internazionale perché «costa poco» a fronte di un’aspettativa di vita tra le più alta al mondo. Questa sbandierata efficienza era in realtà merito di medici e infermieri assai competenti capaci di compensare con turni massacranti e sacrifici personali le risorse limitate, o deviate verso la sanità privata. Finché a svelare il trucco non è arrivato il virus, e la sua retorica piena di eroi, angeli e martiri. L’errore più grave, adesso, sarebbe far ripartire il paese dimenticandoceli di nuovo.

* Fonte: Andrea Capocci, il manifesto[1]

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