La crescita continua è un mito, da sfatare definitivamente. Intervista a Roberta Radich ed Enrico Gagliano

by Alberto Zoratti * | 27 Aprile 2020 10:11

Loading

La transizione ecologica e sociale verso società più sostenibili non può prescindere da un chiaro spostamento dall’estrazione e utilizzo di combustibili fossili alla creazione di una rete intelligente per l’utilizzo e lo sfruttamento delle fonti rinnovabili. Ma per questo è necessario un cambiamento radicale nelle politiche e nella pianificazione futura per le strategie energetiche nazionali e internazionali. In questo i movimenti possono giocare un ruolo sostanziale nel modificare le agende locali e globali.

 

Rapporto sui diritti globali: Il referendum sulle trivelle di alcuni anni fa, al di là del risultato, ha mostrato un’ampia sensibilità del Paese sul tema specifico. A che punto siamo?

Roberta Radich ed Enrico Gagliano: Il referendum No Triv del 2016, ha portato alle urne 15 milioni e 800 mila cittadini, che si sono espressi a grande maggioranza per il “Sì” all’abrogazione della norma che riguardava le trivellazioni entro le 12 miglia marine. Non ha avuto il quorum ma è stato un passo importante nella storia delle conquiste ambientali di questo Paese: ha costretto il governo Renzi a recepire nella Legge di Stabilità 2015 alcuni dei sei quesiti proposti e ha ottenuto altri importanti risultati che prescindono dall’esito delle urne, ha fatto emergere:

Detto questo, è stato solo un passo, molti altri passi sono stati fatti dopo, in forma scollegata, non organica, composita dal mondo sociale e ambientalista italiano e mondiale.

Sappiamo bene come dal 2016 la sensibilità verso le tematiche ambientali sia cresciuta e stia crescendo, anche se ancora troppo lentamente rispetto al crash ecosistemico e ai cambiamenti climatici in atto. Durante il referendum del 2016 ci è apparso molto chiaro, facendo la campagna referendaria, che erano soprattutto i giovani e chi non era avvezzo a fare battaglie politiche a essere coinvolto da questi temi. E, negli anni successivi si è esattamente verificato questo. Come dimostra il movimento Fridays for Future, ma non solo.

La sensibilità ambientale cresce anche se non ha una “coscienza politica” condivisa e identitaria. Cresce come opinione e si manifesta nelle scelte di vita e nei consumi. Una ricerca recente indica che il 64% degli italiani non si sente sostenuto dalle imprese per quanto riguarda l’impegno a favore del clima, una quota al di sopra della media europea che è del 54% (ricerca della Banca Europea per gli Investimenti). Ma sono soprattutto i giovani ad avere le idee più sbilanciate ecologicamente. Da una indagine condotta dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo su un campione di 2.000 giovani nati tra il 1982 al 1997, l’81,8% dei giovani si dice disposto a cambiare le proprie abitudini per ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici sul pianeta, mentre l’82% dichiara di essere disponibile a ridurre al minimo gli sprechi (dall’acqua alla luce, dalla plastica al cibo). Inoltre, il 70% cerca di scegliere prodotti di aziende impegnate nella salvaguardia dell’ambiente. È soprattutto nell’ambito delle scelte degli stili di vita che si manifesta questa sensibilità, meno sul piano della consapevolezza e dell’azione politica.

 

RDG: I recenti sviluppi di Ombrina Mare e dell’arbitrato di Rockhopper mostrano quanto la questione ambientale sottostia agli interessi degli investitori. Qual è la vostra opinione e come pensate si possa contrastare una tale deriva?

RR-EG: Potrà sembrare paradossale ma saranno proprio gli interessi degli investitori a far emergere in modo virulento la questione ambientale: non è una resa alle leggi del mercato, ma una presa d’atto dell’inizio di un processo di cui oggi si possono cogliere timidi segnali.

Prendiamo il caso della Norvegia, che le associazioni dell’Oil&Gas citano come modello da imitare: nessun limite alle estrazioni in mare; creazione di ricchezza e benessere per il Paese grazie ai proventi del petrolio e alle alte royalties; crescita del sistema economico anche grazie all’indipendenza energetica e così via. Ebbene, è del marzo scorso la decisione del Government Pension Fund di Oslo, gestito dalla Banca Centrale norvegese, di tagliare gli investimenti in petrolio e gas. Il Fondo, che è il più ricco del mondo, cederà le azioni di 134 aziende che operano nell’esplorazione e nella produzione di idrocarburi. D’accordo, il taglio avrebbe dovuto essere più radicale giacché il piano avrebbe dovuto interessare 341 società, major comprese, ma è innegabile che questo passo sia l’inizio di un percorso in cui le regole del business sposteranno grandi risorse da un settore all’altro.

I gestori Norwegian Sovereign Wealth Fund hanno deciso di investire meno nel petrolio perché il loro «obiettivo è quello di ridurre la vulnerabilità delle nostre risorse comuni al costante calo dei prezzi del petrolio». E di fronte a scenari sempre meno improbabili di cali consistenti e perduranti del prezzo del barile, i principali investitori non potranno che agire di conseguenza. Lo stanno già facendo, ad esempio, non per ragioni etiche ma per mera opportunità, lo stesso Fondo norvegese, il Fondo petrolifero saudita e altri Fondi nazionali costituiti dai profitti petroliferi, incrementando gli investimenti in infrastrutture di energia rinnovabile come parchi eolici e parchi solari.

Ovviamente, l’azione di contrasto alla deriva fossile non può essere rimessa alle dinamiche del mercato e alla trasformazione dei modelli di business. Semmai occorre far emergere un dato finora sottovalutato anche dai profeti della crescita infinita ma non, ad esempio, dalle compagnie di assicurazione e dalla finanza, e che è strettamente connesso con l’insostenibilità economica degli investimenti ambientalmente dannosi.

Secondo il Corporate Climate Center della compagnia di ri-assicurazione tedesca Munich Re, a livello internazionale si è passati da una media annua di 10 miliardi di dollari per risarcimenti legati a eventi atmosferici degli anni Ottanta a circa 50 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.

«Il settore è particolarmente preoccupato che il continuo aumento delle temperature possa rendere più complesso garantire protezione finanziaria affidabile alle persone che ne necessitano», ha spiegato Nicolas Jeanmart, direttore di Insurance Europe e rappresentante di 34 associazioni assicurative del vecchio continente.

La questione ambientale si sta quindi gradualmente imponendo all’attenzione degli investitori, condizionandone fortemente le scelte.

A noi spetta il compito di far emergere le contraddizioni di un sistema che ci vede e che ci vuole dipendere dalle fonti fossili e di evidenziarne l’insostenibilità sotto il profilo ambientale, sociale e anche economico, parlandone in modo molto chiaro e diretto all’opinione pubblica.

 

RDG: Quanto la redazione di un nuovo piano energetico realmente sostenibile, sostanzialmente diverso dalla strategia energetica nazionale lanciata alcuni anni fa, sta diventando una necessità per l’Italia?

RR-EG: C’è chi ritiene antistorica e sterile la funzione di un qualsiasi “piano” in un’economia di mercato come la nostra, in cui agiscono, in modo incontrollato, numerose variabili. Noi invece siamo dell’avviso che in un Paese che esprime l’ottava economia al mondo in termini di PIL, che è pilastro dell’Unione Europea e punto di snodo e connessione delle relazioni tra l’Unione e i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, le funzioni di pianificazione e programmazione siano irrinunciabili.

Il punto è, semmai, che i Piani Energetici e le Strategie Energetiche approvate negli ultimi anni (SEN 2007, SEN 2018 e la recente Proposta di Piano Nazionale Integrato Energetico e Climatico) hanno del tutto oscurato gli impatti della crisi climatica ed energetica sulla vita del sistema Paese (famiglie, imprese e Pubbliche Amministrazioni).

Prendiamo, ad esempio, la Proposta di Piano Nazionale Integrato Energetico e Climatico dell’Italia, su cui di recente si è espressa la Commissione Europea, giudicandolo incompleto, debole nell’approccio metodologico e approssimativo.

La partita della transizione è giocata sul phase out dal carbone al 2025 – anche se ENEL è disponibile a trattare, per la Sardegna, a una uscita al 2020 – che passa attraverso una massiccia elettrificazione dei consumi sostenuta dal gas naturale (anche GNL, gas naturale liquefatto) quale fonte primaria, sebbene esistano evidenze scientifiche sugli effetti climalteranti del gas naturale, con il suo potenziale di riscaldamento che nei primi 20 anni di immissione in atmosfera è superiore di ben 80 volte rispetto a quello della C02 e che è responsabile per il 25% del Global Warming.

Un Piano Climatico ed Energetico veramente avrebbe dovuto tener conto della vera priorità del nostro tempo (“La casa brucia”) e procedere, con un approccio metodologico scientifico e rigoroso, di conseguenza.

La proposta di Piano Nazionale Integrato Energia e Clima inviata dall’Italia a Bruxelles è insoddisfacente e inadeguata rispetto alla gravità della situazione; e non è un Piano, giacché è privo di tutti i requisiti che fanno di un elaborato molto più che un semplice esercizio retorico.

 

RDG: Il tema delle trivelle e delle perforazioni non può essere estrapolato dalla questione del modello di sviluppo e di infrastrutturazione del territorio. Cosa sta cambiando, se qualcosa sta cambiando, nelle politiche pubbliche di questo Paese?

RR-EG: Qualcosa sta cambiando, ma troppo poco e troppo lentamente. Come ben sappiamo abbiamo pochissimo tempo forse 10 o 15 anni per invertire la rotta del crescente surriscaldamento climatico. Ormai sappiamo quanto sia inevitabile la conversione ecologica radicale dell’economia, della produzione, della società. Ma i dati purtroppo non sono affatto in questa direzione.

Non sono in gioco solo le trivellazioni e l’estrazione di gas o petrolio, è in gioco il sistema di “sviluppo” che non può più essere tale, la concezione del nostro futuro, la visione complessiva di società e di vita sul Pianeta. Secondo un recente Rapporto (Global Energy Innovation Index 2019, messo a punto dall’Istituto internazionale di ricerca ITIF) senza una maggiore e più rapida innovazione sulle tecnologie pulite per l’energia sarà praticamente impossibile raggiungere gli obiettivi globali sulle emissioni di gas serra. In coda tra i Paesi più sviluppati troviamo Australia, Italia e Paesi Bassi. L’Italia è anche nel “club” di nove Paesi (Corea del Sud, Francia, Paesi Bassi, Australia, Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia) che nel 2018 hanno investito in R&S meno che nel 2015 e tra i sei Paesi (con Messico, Cina, Australia, Norvegia e Canada) che continuano a investire quasi un quinto dei fondi in programmi di ricerca e sviluppo nel settore dei combustibili fossili.

Il punto è questo, tutto politico: il massiccio sostegno al comparto Oil&Gas e il bassissimo incentivo alle rinnovabili, e quel poco sostegno solo a favore delle maggiori aziende che monopolizzano il fossile. Sappiamo anche che sviluppo e conversione ecologica non possono più convivere: il Rapporto dell’European Environmental Bureau afferma che è necessario andare oltre la crescita nella scrittura delle politiche. La crescita continua è un mito: siamo costretti a riscrivere la nostra visione del futuro ponendo un limite alla crescita, lavorando sulla giustizia sociale e la ridistribuzione delle risorse, rifondando le nostre vite collettive su altri sistemi di sopravvivenza energetica e produttiva.

La politica reale italiana è lontana anni luce. Le politiche di Matteo Renzi sono state chiaramente fossili, in tutti i sensi; non si è differenziato il governo gialloverde, che ha dato vita a una legge tutta di facciata, uno “stop alle trivellazioni” che è solo sulla carta e senza futuro, allo stato attuale.

Si parla ora molto di ambiente, ma quanto si preannuncia sembra debole e poco all’altezza della radicale svolta necessaria in materia.

È sempre più urgente una presa di coscienza collettiva dell’urgenza di questa svolta: questo è un fatto politico e culturale. Le attuali generazioni sono cresciute all’ombra del mito della crescita e sono eredi di molte generazioni che hanno fatto altrettanto. Invertire la rotta e creare “nuove crescite” relazionali, sociali, culturali, artistiche, con nuovi orizzonti, forse è la sfida che ci attende.

 

RDG: Per ciò che riguarda la società civile, esistono convergenze tra campagne, movimento e comitati? E quanto questo processo può essere considerato necessario?

RR-EG: Un recente articolo di Wu Ming afferma una cosa che pensiamo da sempre: che un “partito trasversale” da tempo etichetta i movimenti territoriali come il “Paese dei No”. Renzi parlava di quattro “comitatini” che bloccano il grande “sviluppo” italiano. In realtà, questi sono stati una grande e forte mobilitazione sul cambiamento climatico degli ultimi decenni: in forma parcellizzata, confusa, non organica, spesso conflittuale tra loro (e questo è stato ed è una gravissima pecca e un’enorme occasione mancata), ma malgrado i limiti sono stati i comitati e i movimenti ambientali a indicare la strada del futuro e a dire, come abbiamo affermato in una nostra assemblea di qualche tempo fa, che assieme, tutte, queste rivendicazioni costruiscono un grande “Sì”. Abbiamo convocato nel 2018 un’assemblea dove sono convenuti a Roma molti comitati e movimenti da tutta Italia, all’insegna del “SÌ-AMO LA TERRA!”, proprio per indicare la proposta collettiva che si delinea attraverso queste mobilitazioni apparentemente scollegate.

Sempre più c’è consapevolezza dell’intreccio tra i temi e che tutti abbiamo una stessa visione di mondo e di società alternativa. È stato ampiamente dimostrato che “i comitatini” ambientalisti sono un movimento che va ben al di là della logica NIMBY e sono portatori di istanze trasformative di tutta la società: a livello economico, culturale, sociale e politico.

Sta avvenendo un parcellizzato, ancora non coeso, movimento dal basso su livelli diversi: le autorganizzazioni di comitati ambientalisti; le lotte per i beni comuni, contro le privatizzazioni e l’esproprio dei beni pubblici e sociali, la lotta contro il TTIP e i trattati in genere, le proposte di un vasto mondo associativo e di esperienze di vario tipo che propongono nuovi stili di vita: transizione, decrescita, economie alternative; amministrazioni che avviano veri processi partecipativi. Ognuna di queste realtà ha proprie priorità politiche e/o sociali, avviate sulla base di un proprio percorso collettivo con altre/i, e da lì deve partire. Ma si deve far crescere la consapevolezza che solo nella comune rivendicazione di diritti, garanzie e di cambiamento di direzione politica, economica e sociale, sarà possibile ottemperare a quelle priorità. Questa rete in fieri dovrebbe essere sempre più propositiva, indicando un nuovo modello energetico e di conversione ecologica, una rete sempre più coesa, policentrica, che sappia sfruttare la “forza dei legami deboli” per crescere, consolidarsi e avviare una trasformazione culturale e politica.

Attualmente, c’è una grave crisi della rappresentanza e la politica non sa recepire queste istanze. Diamo per scontato questa distanza tra mondo sociale e politica. Forse, però, non dovremmo più darla per scontata e ricreare quel collegamento necessario per avviare la urgente conversione ecologica che si impone al nostro futuro.

 

*****

 

Roberta Radich: psicologa, psicoterapeuta e sociologa, ha approfondito la sua formazione con master in psicologia della salute e nel management sociale. Svolge attività libero-professionale come psicoterapeuta individuale, della coppia e della famiglia ed è presidente della Fondazione Capta di Vicenza, un collettivo di psicologi e volontari che lavora per promuovere la crescita personale e la cura delle relazioni nella comunità. Si occupa inoltre di percorsi di facilitazione sociale e politica ed è una attivista ecologista da molti anni. Nel 2014 si è avvicinata al Coordinamento nazionale NoTtriv, dal 2016 fa parte del Consiglio direttivo del Coordinamento.

 

Enrico Gagliano: si occupa di energie rinnovabili e di efficientamento energetico dal 2009 e, ancor prima, ha lavorato a stretto contatto con le Amministrazioni locali nel settore tributario e della gestione delle risorse umane, con particolare riferimento all’aggiornamento e alla valutazione delle figure apicali (dirigenti e titolari di posizione organizzative). È tra i cofondatori del Coordinamento nazionale No Triv e membro del Consiglio direttivo dell’Associazione dal 2016.

******

* Intervista pubblicata nel 17° Rapporto Diritti Globali[1] – “Cambiare il sistema”, a cura di Associazione Società INformazione[2], Ediesse editore

Il volume, in formato cartaceo può essere acquistato anche online: qui[3]
è disponibile anche in formato digitale (epub): acquistalo qui [4]

 

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Post Views: 431
Endnotes:
  1. 17° Rapporto Diritti Globali: https://www.dirittiglobali.it/17-rapporto-sui-diritti-globali-2019/
  2. Società INformazione: https://www.dirittiglobali.it/chi-siamo/
  3. qui: https://www.ediesseonline.it/prodotto/rapporto-sui-diritti-globali-2019/
  4. qui : https://www.ediesseonline.it/prodotto/rapporto-sui-diritti-globali-2019-ebook/

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2020/04/la-crescita-continua-e-un-mito-da-sfatare-definitivamente-intervista-a-roberta-radich-ed-enrico-gagliano/