Salute in carcere. Ricominciamo dall’etica pubblica

Salute in carcere. Ricominciamo dall’etica pubblica

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Sono passati più di due mesi dall’inizio dell’emergenza pandemia in Italia. Oggi, agli esordi della cosiddetta fase due, dobbiamo prendere atto, con una certa amarezza, che la discussione sulle misure da prendere a tutela della salute dei detenuti e delle detenute non è impostata nei termini corretti. Ricominciamo dunque dal principio e dai principi. Il punto di riferimento, per qualsiasi piano, non può non essere il principio di etica pubblica, sancito in Italia dalla Costituzione: la salute è un diritto fondamentale, alla base di altri diritti, che riguarda tutti e tutte: da qui discende il diritto alle pari opportunità nella tutela della salute dei reclusi e dei liberi. Sappiamo che il diritto dei reclusi è costantemente minacciato: da un lato entra in contraddizione con la condizione stessa di privazione della libertà (e di totale dipendenza dall’istituzione), che priva la persona di un determinante importante della salute psichica, prima ancora che fisica; dall’altro, è permanentemente a rischio di essere compresso e distorto dalle esigenze di sicurezza, spesso sospinte dal vento di pulsioni sociali afflittive, a sostegno implicito (ma spesso anche esplicito) di quei “trattamenti contrari al senso di umanità” che la Costituzione esclude. Dunque, la tutela della salute dei detenuti/e è fonte di permanente conflitto. Proprio per questo richiederebbe un impegno costante da parte delle istituzioni competenti.

Una precisazione: di pari opportunità (alla tutela della salute) si deve parlare, non di parità, poiché le condizioni di vita dei liberi e dei reclusi non sono comparabili. Tantomeno in tempi di coronavirus. Prendiamo un esempio: nel contrasto alla pandemia, si fa continuamente appello alla responsabilità individuale nel proteggersi e nel seguire comportamenti corretti di “distanziamento” dagli altri. Insomma, il ritornello è “la salute è nelle tue mani”. C’è del vero in questo, ma è una verità parziale, perché le disuguaglianze socioeconomiche si traducono in maggiori/minori possibilità di autotutelarsi. Chi vive in strada, o vive in un campo nomadi senza servizi igienici, non è detto che sia “meno responsabile”. Piuttosto, il dito andrebbe puntato verso la responsabilità sociale: poco o niente le istituzioni fanno per permettere a queste persone di difendere meglio se stesse e gli altri. Nel caso dei reclusi che non scelgono dove stare e con chi stare, la responsabilità collettiva è massima. Qualcosa di simile si può dire, pur con le dovute differenze, per tutte le persone istituzionalizzate, come gli anziani.

Da qui la domanda, semplice e al tempo stesso corretta: come assicurare anche dentro le carceri la tutela dei detenuti e del personale dal rischio pandemia? I dipartimenti di prevenzione delle ASL sono stati in grado di elaborare piani specifici di tutela per le singole carceri? Sottolineo la responsabilità delle autorità sanitarie locali, poiché sono loro ad avere in carico la salute dei detenuti, ad avere il compito di indicare le linee d’azione e predisporre gli interventi, non il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria.

Sono giorni e mesi in cui esperti e scienziati decidono sulle nostre vite. Si è appena conclusa una detenzione domiciliare di massa, decretata dal governo sotto “dettatura” (più che suggerimento) di comitati scientifici. Non mi pare che ci sia stato uno sforzo né a livello di pull “scientifici”, né di articolazioni sanitarie locali, per formulare piani di prevenzione specifici per le carceri. I numeri parlano da sé. Siamo a circa 53.000 presenze alla fine di aprile, in calo rispetto alle 57.800 di fine marzo: un semplice contenimento del sovraffollamento, un obiettivo “fai da te”, che ha ben poco a che fare con l’emergenza sanitaria. Siamo cioè lontani dalla capienza regolamentare (di circa 47.000 persone), che dovrebbe essere obiettivo di tutela standard della salute in tempi normali. E ancora più lontani dalle 40.000 presenze, che potrebbero permettere l’isolamento di tutti i positivi e una convivenza minimamente compatibile con la regola aurea del “distanziamento sociale”. Più alla radice, mancano piani organici di screening periodici di detenuti e di agenti, con conseguente predisposizione di percorsi di sicurezza in caso di positività, spazi appropriati per la quarantena, pronta presa in carico dei sintomatici. Ancora meno si è pensato a piani di adeguamento degli standard igienici delle carceri (docce in tutte le celle, mense in tutti gli istituti, per dividere gli spazi del cibo da quelli del pernottamento etc.). È questo il metro di misura giusto per stabilire se il diritto alla salute dei reclusi/e sia rispettato o meno, in tempi di coronavirus.

Guardando al dibattito mediatico, balza agli occhi che la prima carenza sta proprio nel metro di giudizio. Si è detto che i contagiati in carcere sono “pochi”. C’è perfino chi si è buttato a calcolare percentuali di contagio, (supposte) inferiori in carcere rispetto alla comunità. Ci si è avvalsi della macabra contabilità dei morti in detenzione (anch’essi “pochi”) per decretare che “il carcere è un luogo sicuro”, e che “i detenuti stanno meglio dentro che fuori”. Ci si è perfino avventurati in (altrettanto macabri) paragoni fra i contagi “limitati” nelle carceri e la strage nelle Residenze Assistite per anziani: prendendo a pretesto la vergognosa incuria per gli anziani a giustificazione dell’inazione per i detenuti (sottinteso: “per i detenuti si fa perfino troppo”).

Proviamo a rovesciare la funebre logica. Anche una sola vita persa – quando la si sarebbe potuta salvare – testimonia della violazione del diritto alla vita. E, insieme, di una sconfitta del senso di civiltà.

 

 

Photo by Kate Trifo on Unsplash



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