L’Italia di sotto. Il prezzo pagato dai lavoratori e l’urgenza di un vero New Deal

L’Italia di sotto. Il prezzo pagato dai lavoratori e l’urgenza di un vero New Deal

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Lavoro.  Nei primi 5 mesi dell’anno con la cassa integrazione persi oltre 5 miliardi di euro, perché il salario effettivamente coperto è poco superiore alla metà della remunerazione

Un mondo nel quale bastano un paio di mesi di rallentamento (di lockdown) per aprire i crateri sociali che ora, giorno per giorno, andiamo scoprendo, è un mondo fatto male. Malissimo.

Una società nella quale si aprono le diseguaglianze abissali che stiamo misurando, non è neppur degna di questo nome. È peggiore dello stato di natura hobbesiano.

Man mano che si solleva il velo che ci aveva schermato la vista nel tempo in cui tutti gli occhi erano fissi sui reparti di terapia intensiva, abbiamo la misura di quanto alto sia stato il prezzo pagato dal mondo del lavoro – dai lavoratori, in primo luogo da quelli manuali – e dagli strati più deboli.

Con la cassa integrazione, per esempio, che sembrava l’ammortizzatore sociale per eccellenza dei «garantiti».

Sapevamo che erano all’incirca 8 milioni i lavoratori interessati, tra Ordinaria (la grande maggioranza) e Straordinaria. Ma scopriamo solo ora che quella che hanno perso nei primi cinque mesi dell’anno è una cifra spaventosa: oltre 5 miliardi di euro, perché la parte di salario effettivamente coperta dalla Cig è poco superiore alla metà di una remunerazione già assai misera anche in tempi normali.

E questa è solo la sezione visibile del massacro sociale fotografato dal rapporto dell’associazione Lavoro&Welfare presieduta da Cesare Damiano, con cifre impressionanti: quasi due miliardi di ore di Cassa integrazione (1 miliardo e 794 milioni) in buona parte concentrate nel trimestre del lockdown, più di quanto si era registrato in tutto il 2010, l’anno più nero della crisi post subprime, il 1400% in più rispetto al 2019, con punte del 1800% e del 2600% nel nord-ovest e nel nord-est.

Poi ci sono quelli ancor meno «garantiti» – l’arcipelago della Cassa integrazione in deroga – normalmente non coperti o non più copribili, i dipendenti delle imprese povere soprattutto del commercio e del settore alberghiero (una platea di 3 milioni di lavoratori) che hanno visto le ore perdute crescere di una percentuale iperbolica (il 14.303% in più rispetto all’anno precedente), con 46 milioni di ore e con oltre 1 milione di domande solo in piccola parte riconosciute e pagate, per i ritardi dovuti soprattutto al collo di bottiglia costituito dalle Regioni. Molti di loro stanno ancora aspettando le tranches previste dal decreto.

E dietro di loro, in fitta e dolente schiera, gli invisibili, la galassia gassosa della gig economy, dei lavoretti a giornata, dell’arte di arrangiarsi negli interstizi del capitalismo delle piattaforme, nella logistica di periferia, sull’ultimo metro della consegna, o nei servizi alle persone, collaboratrici e collaboratori famigliari informali, personal trainer, factotum, dog sitter

Solo in parte coperti con i bonus una tantum, più spesso spiaggiati dal lockdown, lasciati all’asciutto dal riflusso delle acque di un’economia instabile e mobilissima, cui basta un breve periodo di congelamento per dissolvere le proprie filiere, e lasciar cadere nel vuoto corpi e persone che tra le sue pieghe si erano ricavate una precarissima fonte di sopravvivenza.

È l’Italia di sotto, che non ha la voce potente di Confindustria per farsi le proprie ragioni (pur avendone enormemente di più di quella) e che è fragile come il sistema che le hanno costruito intorno.

La parte di Paese che ha pagato in modo feroce il proprio prezzo al virus, e che ora rischia di continuarlo a pagare a una congiuntura che non promette niente di buono.

La piazza dei metalmeccanici e delle «cento vertenze» (diventate 150, poi 200 e ogni giorno ne porta altre nuove) ne ha dato una prima impressionante idea, con la sua compostezza, il rigoroso rispetto delle misure sanitarie, il distanziamento, le mascherine ben incollate al viso in segno di rispetto degli altri e di sé, e quel terribile messaggio che ci affida: l’autunno sarà duro. Durissimo.

Mentre gli altri, i soliti – un’imprenditoria arruffona e arraffona senza idee ma con un unico pensiero in testa, accaparrare le risorse di quel pubblico che non smette di denigrare ma a cui non cessa di domandare – si preparano all’assalto alla diligenza dei soldi stanziati dall’Europa, loro ci ricordano che una deadline sta per essere varcata. Nel senso letterale del termine: una linea oltre la quale c’è la morte sociale dopo quella virale.

C’è, nel gran teatro della politica politicante – ma anche di quella sindacale – uno, uno solo, che sia disponibile a battersi fino in fondo, con convinzione non mediabile, per imporre la centralità di questa questione: non del «lavoro» in astratto ma dei «lavoratori»?

Convinto – ma davvero convinto – che il mondo di ieri che ha prodotto il disastro di oggi vada rifatto ab imis. Dalle radici. E a partire da quel «basso» senza il quale tutto l’edificio si sfalda e crolla, rintracciando le linee di quell’altro New Deal del secolo scorso.

C’è? Perché se ci fosse, come per Lot e gli altri 10 che non si trovarono a Sodoma, basterebbe a salvare la città. Ma se c’è, batta un colpo.

* Fonte: Marco Revelli, il manifesto



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