Migranti. I segreti di stato italiani sui respingimenti collettivi nei lager libici

by redazione | 28 Giugno 2020 9:15

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Quanto ha interessato l’Italia il respingimento in Libia di 101 persone operato il 30 luglio 2018 dalla nave italiana Asso Ventotto, uno dei cargo che lavora per la piattaforma della Mellitah Oil & Gas (società partecipata al 50% da Eni)? Circa 48 ore, il tempo di qualche articolo di giornale e di un esposto alla Procura di Napoli (sede della compagnia armatrice della nave). Poi più nulla.

A me, invece, interessava la sorte delle vittime: dove fossero, chi fossero. Così, un anno fa, ho deciso di cercarle all’interno dei lager libici. Non le ho trovate, ma ho rintracciato altre persone, tante, che raccontavano di essere state respinte in Libia da una nave Asso. Ciò sarebbe avvenuto un mese prima del caso noto, precisamente la notte tra 1 e 2 luglio 2018. Un respingimento collettivo gigantesco (si parla di 276 persone) mai dichiarato dal governo italiano o dall’armatore Augusta Offshore, eppure presente in uno dei report in arabo che la Marina libica in quel periodo postava puntualmente online: «È stato inviato il rimorchiatore Asso per supportare la pattuglia e fornire assistenza».

IL GIOVANE ATO SOLOMON (i nomi usati sono tutti di fantasia) racconta che a bordo della Asso erano diverse centinaia, in maggioranza eritrei e sudanesi. Moltissimi, lui compreso, i minorenni. Tante anche le donne, alcune incinte o con bambini piccoli. Chiesero subito protezione e il capitano li rassicurò: «Vi porteremo in Italia. Adesso dormite». La mattina dopo furono sbarcati al porto di Tripoli alla presenza di Iom e rinchiusi in diversi lager.

NON È STATO FACILE RITROVARLI tutti. Nel lager di Zintan, stremati dalla fame e dalle malattie, c’erano i minorenni. Bert racconta che le guardie portavano cibo solo ogni cinque giorni. Molti morivano sul pavimento brulicante di vermi. A Triq al Sikka c’erano parecchie donne. Kissa aveva vent’anni e sosteneva che le guardie depennassero apposta il suo nome dalle liste di evacuazione di Unhcr, che lo facevano anche con altre, soprattutto con una minorenne somala, chiusa nella cella femminile da due anni, incinta da cinque mesi. Nell’hangar maschile si stava ancora peggio: una cella completamente buia era usata per le torture. Nel lager di Sabaa, Eden e Jim, marito e moglie, separati da un muro, non si vedevano da un anno. Poi c’era Dahia, che aveva partorito il piccolo Loni un mese dopo il respingimento, il bimbo stava miracolosamente bene. Josi, invece, non c’era: era morto, sul pavimento di Zintan, il suo corpo finito chissà dove.


TANTE PERSONE, TANTE STORIE.
 Oggi c’è un intero collettivo di attivisti ad occuparsi del caso (chi scrive ne fa parte): il Josi & Loni Project. Il gruppo raccoglie testimonianze e diffonde appelli per l’evacuazione delle tante vittime che, a distanza di due anni, sono ancora in Libia. Segue anche i pochi che sono riusciti ad arrivare in Europa, da soli o con corridoi umanitari. Queste persone, a cui nel 2018 è stato negato il diritto a chiedere asilo in Italia, ora hanno ottenuto lo status di rifugiato e nominato degli avvocati. La tragica storia dell’ingiustizia subita è diventata, finalmente, un caso legale.

IN QUESTO FERMENTO ci sono dei grandi assenti: le istituzioni. Unhcr ha finora ignorato una richiesta di informazioni presentata dai legali dei rifugiati. Il primo governo Conte non ha risposto all’interrogazione parlamentare, presentata alla Camera nel luglio 2019, che chiedeva ragguagli sui due respingimenti operati dalle navi Asso e il ministero dei Trasporti di Toninelli (M5S) ha rifiutato l’accesso civico alle richieste di soccorso ricevute e alle conseguenti azioni del Centro nazionale di coordinamento del soccorso in mare.

Non è andata meglio con il secondo governo Conte: il ministero retto da De Micheli (Pd) ha reiterato il rifiuto all’accesso civico. La motivazione, da un governo all’altro, non cambia: devono essere esclusi dagli accessi civici sia le «attività operative-esercitazioni Nato e nazionali», tra le quali rientrano anche le attività Sar, sia ciò che concerne la Difesa, sia tutto ciò che può ledere le relazioni internazionali con altri Stati («in particolare con il Governo libico», scrivono).

Riassumendo: lo Stato da una parte invoca il segreto di stato per mantenere riservato un respingimento segreto effettuato da un privato, dall’altra fa rientrare tutte le attività Sar all’interno della materia militare. Il dubbio rimane: è stata davvero un’iniziativa autonoma delle navi private Asso o si tenta di nascondere un’altra regia? La Augusta Offshore, che abbiamo contattato, non ha voluto chiarire la catena di responsabilità o rilasciare dichiarazioni.

LUCIA GENNARI, AVVOCATO ASGI, ci conferma che il ministero dei Trasporti ormai rifiuta ogni accesso civico su casi riguardanti le attività Sar nel tratto di mare tra l’Italia e la Libia. Altro grande ostacolo, ci spiega, è la difficoltà a rappresentare le vittime che si trovano in Libia. Prendere la procura legale di un rifugiato chiuso a Trik al Sikka, a Zintan o in altri campi, è praticamente impossibile. Ci sono casi, come quello del respingimento collettivo illegale compiuto nel 2009 dalla nave Orione, arrivati in tribunale soltanto perché le vittime erano in Europa e in Israele. La sentenza, seconda pietra miliare dopo il caso Hirsi, a ottobre 2019 ha condannato il governo italiano a risarcire e riammettere in Italia i rifugiati deportati in Libia dalla nave militare Orione.

Il fatto che le Asso siano navi private, complica qualcosa? No, spiega ancora Lucia Gennari, anche il privato è vincolato dall’obbligo di soccorso in mare, dall’obbligo di sbarcare naufraghi in un luogo sicuro e dal divieto di compiere respingimenti collettivi. Qui, poi, si tratta di trasportare persone in luoghi in cui la violazione dei diritti umani è così grave, così nota.

DOPO IL NEGATO ACCESSO del Governo alle informazioni, anche gli attivisti si sono rivolti a un privato, un sito di monitoraggio navi. In cambio di pochi euro, hanno ricevuto il tracciato di rotta delle navi Asso che tra l’1 e il 2 luglio 2018 effettuarono cambi di destinazioni dichiarate, virate e lunghe soste in mezzo al mare. Movimenti che coincidono con i racconti delle vittime.

Tra l’ostracismo del governo italiano, l’indifferenza delle organizzazioni internazionali, il no-comment della Augusta Offshore, questa causa si farà e trascorreremo i prossimi anni a dissertare di diritti umani. Nel frattempo gli umani sono ancora in Libia. Anche Jan, dopo Josi, è morto, di stenti, sul pavimento di un lager. A Triq al Sikka, Kissa ha organizzato una protesta assieme ad altre donne, chiedevano a Unhcr di essere evacuate, ma non è andata bene.

IL 15ENNE CRIS GUARDA IL MARE tutti i giorni e aspetta di salire su un gommone che non sia troppo sgonfio. Il 16enne Sid si è ammalato gravemente e i 15enni Bert e Jack lo hanno assistito come un figlio, donandogli il poco cibo che avevano e restando notte e giorno al suo capezzale. Il ragazzo ha provato a uccidersi perché si sentiva un peso, ma gli amici lo hanno fermato. Non hanno diritti, ma sono umani.

* Fonte: Sarita Fratini,  il manifesto[1]

 

ph by Josi & Loni Project

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«Intercettati e catturati» al largo di Misurata, 6 muoiono in mare

Migranti. A vuoto gli allarmi delle ong, gommone con 93 persone a bordo riportato indietro dalla Guardia costiera di Tripoli

Un’imbarcazione in difficoltà al largo di Misurata, l’allarme lanciato dalle navi delle ong presenti nel tratto di mare tra la Libia e le coste italiane, il muro di gomma delle autorità marittime europee. E un triste epilogo, per i 93 migranti a bordo del gommone, sintetizzato venerdì a tarda sera in un tweet di Mediterranea Saving Humans: «Alle 23:18 una motovedetta della cosiddetta “Guardia costiera libica” ha completato l’operazione di intercettazione e cattura di “oltre 70 persone” tra cui donne e bambini piccoli a bordo del gommone segnalato».

Nella mattinata di sabato 27 giugno la portavoce di UN Migration Sara Msehli ha aggiunto che purtroppo sei delle persone a bordo, che erano in realtà 93, sarebbero morte. Una donna ha invece partorito lungo il viaggio di andata e ritorno. I sopravvissuti sono stati fatti sbarcare a Khoms, 120 km a ovest di Tripoli. E secondo quanto assicura l’Organizzazone internazionale per le migrazioni (Iom) sarebbero stati tutti rilasciati.

Anche la Ocean Viking fa sapere di aver cercato la barca in questione per 12 ore: «Durante questa operazione di ricerca, la #OceanViking ha contattato le autorità marittime libiche in cerca di coordinamento più volte, senza risultato. Malgrado la guardia costiera libica fosse irraggiungibile, le autorità marittime europee hanno continuato a rimandarci a loro». Insomma, uno schema consolidato di scaricabarile e opacità sulla sorte finaloe dei migranti intercettati.

Sul terreno del conflitto la situazione resta estremamente tesa e a soffrirne non sono solo i migranti intrappolati nel limbo libico. Mentre il premier al Serraj è in tour per rafforzare i legami internazionali del Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, il suo ministro dell’Interno, Fathi Bashaga, invita l’Unione europea a imporre sanzioni contro il gruppo russo Wagner, i cui mercenari mantengono un ruolo attivo al fianco delle forze di Haftar, controllando in particolare, insieme al gruppo di miliziani Janjawid, il giacimento petrolifero di Sharara. Bashaga chiede che i mercenari russi vengano inseriti nella lista dei gruppo sponsor del terorismo.

Allo stesso tempo il comandante della sala operativa Sirte-Jufra, Ibrahim Beit Al Mal, annuncia che i suoi uomini sono pronti a muoversi verso Sirte, città ancora controllata dalle forze di Haftar e indicata dal presidente egiziano al-Sisi come una sorta di «linea rossa», oltrepassata la quale – ha detto – l’Egitto sarebbe costretto a intervenire.

 

* Fonte: il manifesto[1]

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  1. il manifesto: https://ilmanifesto.it/

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