Operai morti alla Thyssenkrupp di Torino: arriva il carcere per i manager tedeschi

La misura era stata sospesa per il Covid-19 ma adesso l’arresto è imminente
Quasi tredici anni dalla tragedia – con le sue sette morti operaie – e a quattro dalla conferma delle condanne in Cassazione, la vicenda del rogo alla ThyssenKrupp di Torino arriva a un punto. I manager tedeschi della multinazionale dell’acciaio, condannati per omicidio colposo plurimo, andranno in carcere in Germania. Finora erano sempre riusciti a evitare l’esecuzione della condanna. Si tratta dell’allora ad Harald Espenhahn e di Gerald Priegnitz, consigliere di amministrazione e membro del board.
La svolta è stata annunciata, ieri, dal procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, che ha ricevuto la comunicazione da Eurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria dell’Ue. Non ci sono possibilità alternative rispetto alla detenzione carceraria. «Il tribunale di Essen ha riconosciuto l’efficacia della sentenza torinese – ha spiegato Saluzzo – e quindi i dirigenti tedeschi andranno certamente in carcere. Sconteranno una pena di cinque anni, il massimo previsto dalla giustizia tedesca per l’omicidio colposo. La libertà vigilata è prevista solo dopo aver scontato metà della pena in carcere, mentre dopo i due terzi esistono delle misure alternative alla detenzione».
Dopo l’ammissibilità delle pene, adeguate al diritto tedesco, da parte del tribunale di Essen, i due manager avevano fatto ricorso. Questo, però, lo scorso 23 gennaio era stato respinto dal tribunale regionale superiore di Hamm in Germania. Espenhahn e Priegnitz, condannati in Italia rispettivamente a 9 anni e 8 mesi e 6 anni e 3 mesi, sarebbero dovuti andare in carcere già a marzo, ma l’emergenza Covid ha rallentato l’esecuzione della condanna.
Si chiude così una lunga e travagliata pagina giudiziaria, nonostante i tempi record dell’inchiesta coordinata dal pm Raffaele Guariniello: 2 mesi e 19 giorni, in cui emerse che quella di limitare le spese nella prevenzione era stata una precisa scelta aziendale, poiché doveva chiudere lo stabilimento di Torino.
L’ipotizzata accettazione del rischio portò alle conseguenze di quella notte maledetta, tra il 5 e il 6 dicembre del 2007, quando, pochi minuti prima dell’una, sette operai della linea 5 furono investiti da una fiammata di olio bollente. Morirono tutti in meno di un mese a causa delle gravissime ustioni riportate. Antonio Schiavone, che aveva cercato di spegnere l’incendio passando dietro all’impianto, morì quasi subito, gli altri (Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino) nei giorni successivi. L’unico sopravvissuto, tra gli operai in turno, fu Antonio Boccuzzi, che era in attesa del via libera dei colleghi per poter aprire l’acqua della manichetta antincendio.
«Finalmente una buona notizia. Da una parte il no alla semilibertà, dall’altra, forse, la fine di una vicenda che dura 12 anni e mezzo», ha detto Boccuzzi, ex deputato Pd. «È una ferita che oltre a non chiudersi si infetta continuamente. Vedere queste persone condannate condurre la loro vita normale, dà un senso di ingiustizia profonda. Assurdo è l’aggettivo giusto per questa vicenda».
La strage della Thyssen è stata una cesura nella storia di Torino e d’Italia. Un dolore che non si rimargina. «La giustizia che volevamo noi non è questa, la vera giustizia ce la darà Dio» così Rosina Platì, mamma di Giuseppe De Masi, morto a 27 anni. «Li vogliamo vedere in carcere. Troppe volte ci hanno dato questa notizia e non sono mai entrati. La vita dei nostri ragazzi non vale pochi anni di carcere, sono ancora arrabbiata». Ora, bisogna attendere l’esecuzione delle condanne da parte della Germania.
* Fonte: Mauro Ravarino, il manifesto
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