Libia. Il parlamento di Tobruk autorizza l’intervento armato dell’Egitto

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Come la Siria, la Libia è ormai una guerra mondiale «a pezzi» e l’Italia persegue la diplomazia del «pendolo» tra Tripoli e Bengasi. Stavolta, oscillando, si sente un forte sentore di petrolio e di gas.

Reso ancora più pungente dagli ottimi rapporti tra il capo dell’Eni De Scalzi e il presidente egiziano Al Sisi.

Il Parlamento di Tobruk ha dato ieri il permesso alle forze armate egiziane, che la scorsa settimana avevano tenuto esercitazioni su larga scala al confine con la Libia, d’intervenire nel conflitto: di fronte ad una minaccia imminente «per la sicurezza sia libica sia egiziana»; l’obiettivo ora è unire gli sforzi per far fronte alla Turchia, definita «l’invasore», che rappresenta un pericolo per la sicurezza e la stabilità della Libia e del Nord Africa.

MA IL VERO ENIGMA, una coincidenza davvero singolare, è che nello stesso giorno è arrivato a Roma proprio il presidente della Camera di Tobruk, Aguila Saleh, con una fitta agenda di incontri, dal premier Conte, al ministro degli Esteri Di Maio, al presidente della Camera Fico. Insomma nel momento in cui Al Sisi ha il via libera per fermare Erdogan alla Sirte, la «linea rossa» del Cairo, di Mosca, degli Emirati e della Francia, alleati del generale Khalifa Haftar, la diplomazia italiana che sostiene il governo Sarraj tenuto in piedi militarmente dalla Turchia, fa un’altra virata nel conflitto più caldo del Mediterraneo.

NELLE «NOSTRE» manovre ci sono due piani che si intersecano: uno è quello internazionale, l’altro la difesa degli interessi italiani nel settore energetico accompagnati dalla vendita di armi a tutti i protagonisti del conflitto, tra cui l’Egitto. Già si era capito che nonostante gli schiaffi del Cairo su Giulio Regeni, diventati sempre più sonori e beffardi, l’Italia stava spostando il suo asse sull’Egitto dove l’Eni ha in mano il mega giacimento di gas di Zhor mentre Fincantieri e Leonardo si attendono dal Cairo commesse militari miliardarie.

L’Eni stessa sta incoraggiando questa oscillazione verso Bengasi, anche se proprio in Tripolitania la compagnia ha alcuni dei suoi maggiori asset, dai pozzi di petrolio al gasdotto GreenStream, il vero cordone ombelicale tra la Libia e la Sicilia. Ma in questo momento la priorità è la riapertura dei terminali della Mezzaluna petrolifera, controllati da Haftar e dalle milizie filo-Bengasi, per la ripresa delle esportazioni. C’è da rimettere in sesto l’economia libica e ci sono anche tanti debiti da pagare contratti dal generale Haftar con i suoi alleati russi, emiratini, egiziani, per condurre una guerra contro il governo di Tripoli che si è rivelata fallimentare.

ED ECCO CHE il petrolio potrebbe diventare il vero lubrificante di una nuova stagione libica, pur con tutte le cautele che richiede la situazione sempre sull’orlo del conflitto. La National Oil Corporation (Noc), la compagnia petrolifera con sede a Tripoli, nei giorni scorsi aveva infatti annunciato la rimozione dello stato di «forza maggiore» dai terminal di esportazione ma era stata costretta a fare retromarcia per un nuovo blocco imposto dal generale Haftar.

SUL TAVOLO e quindi anche a Roma, dopo la tappa di Mosca e Ginevra, è arrivata la proposta negoziale di Aguila Saleh che cerca di smarcarsi da Haftar e si propone come un canale di dialogo con la Cirenaica alternativo al generale che si era autoproclamato persino “Rais” della Libia.

La Russia vorrebbe trovare un sostituto di Haftar, che ha ampiamente deluso Putin non firmando a Mosca in gennaio la tregua proposta da Mosca, naufragando poi in Tripolitania. Per Putin questo può diventare il momento della trattativa in base a due scopi: rientrare delle spese militari sostenute da Gazprom e Rofsnet per finanziare i mercenari della Wagner filo-Haftar, provare a insediare qualche base militare in Libia da opporre a quelle di cui si è impossessata la Turchia di Erdogan. Uno schema di cessate il fuoco alla siriana che potrebbe anche funzionare e mettere d’accordo interessi diversi.

L’idea è salvare la «Libia utile», senza badare troppo alle questioni umanitarie, come quella dei profughi africani. L’obiettivo è far scorrere gas e petrolio per evitare danni alle infrastrutture. E guarda caso proprio questo è stato l’accordo raggiunto dall’amministratore delegato di Eni Claudio De Scalzi nell’incontro di una settimana fa a Tripoli con Sarraj e il capo della Noc Mustafa Sanalla.

L’accordo per riavviare l’industria petrolifera e l’export – anticipato da Agenzia Nova il 30 giugno scorso – prevede l’apertura di un conto in Libia in attesa di definire le quote dei proventi petroliferi tra Tripolitania e Cirenaica e la riunificazione delle Banche centrali di Tripoli e Tobruk. Ed è su questo mix di petrolio, dollari, armi, che scommette adesso la diplomazia italiana del «pendolo» per salvare la Libia, i «nostri interessi» e anche un po’ – ma molto poco – la faccia.

* Fonte: Alberto Negri, il manifesto



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