La leadership del dollaro verso il capolinea, mentre cresce la Cina

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L’ipotesi che il dollaro perda la sua leadership non è certamente nuova. Tale prospettiva troppe volte annunciata non si è mai verificata e con tutta probabilità non si verificherà nei termini con cui la sterlina venne sostituita dal dollaro come moneta di riserva globale. Una effettiva perdita di egemonia, però, potrebbe maturare dal combinato di molteplici fattori, a partire dalla crescita dell’economia cinese.
Una tale parabola non si determinerà meccanicamente dal differenziale della crescita con il principale rivale economico, ma certamente questo dato non è irrilevante. Il Fmi prevede per gli Usa nel 2020 un calo del Pil dell’8%, mentre per la Cina un aumento dell’1%. La crescita maggiore del Pil cinese significa certo un rafforzamento produttivo, commerciale e finanziario del gigante asiatico, ma il differenziale, che per altro nell’ultimo decennio è andato assottigliandosi, non basta a rendere conto di una crisi egemonica.
Dobbiamo volgere lo sguardo a tendenze economiche e politiche più complessive. Alla guerra commerciale tra i due colossi sembra seguire anche quella finanziaria, con una regolamentazione americana ostile alle imprese cinesi a cui segue una tendenziale loro uscita dai listini a stelle e strisce. D’altro canto il maggior dinamismo dell’economia asiatica spinge Cina e paesi dell’area a stringere rapporti commerciali sempre più stretti.
Per i paesi dell’area asiatica l’interscambio con la Cina costituisce il 40% dei loro volumi di scambio. Pechino non nasconde l’ambizione a de-dollarizzare la propria economia e quella dell’area circostante. Il reminbi potrebbe sostituire il dollaro in Asia come moneta di riserva, ma anche l’euro potrebbe giocare un ruolo chiave.
La Russia ha reso noto che dei quasi 50 mld di interscambi con la Cina meno della metà è ormai effettuato con la valuta americana, superata da reminbi ed euro che sono stati utilizzati per il 56%. Se si rafforzasse un’area monetaria a trazione euro-cinese si ridurrebbero progressivamente le risorse finanziarie disponibili in direzione degli Stati Uniti. Minori scambi commerciali denominati in dollari potrebbero significare meno flussi d’investimento anche verso i titoli di Stato statunitensi. I cinesi sono uno dei principali detentori esteri di Treasuries.
La Fed sarebbe costretta a stampare ancora più moneta per fronteggiare un debito pubblico crescente. Gli Usa sono già ora il principale paese che sta ricorrendo alla monetizzazione del debito, una strategia che denota insieme forza e debolezze del dollaro. La politica ultra espansiva della Fed è possibile anche in virtù del privilegio di detenere le leve della moneta mondiale, potendo scaricare all’esterno, almeno in parte, il costo della crisi interna. L’abuso di questo potere, però, potrebbe rafforzare la convinzione di molti paesi di accelerare la de-dollarizzazione della propria economia.
Inoltre lo scarso risparmio interno degli Usa rende il finanziamento del debito americano dipendente dai flussi finanziari esteri in alternativa alla sua monetizzazione. Nell’attuale fase in cui l’indebitamento sovrano va aumentando ovunque, la ricerca di risorse finanziarie per rendere il più possibile sostenibile ed «economico» il proprio debito diventa un tassello strategico. L’approvazione del Recovery Found europeo potrebbe generare ulteriori novità nel mercato dei titoli di debito considerati a basso rischio e aumentare il grado di competizione nella ricerca di risorse finanziarie.
Il Vecchio continente e la sua moneta unica, dunque, potrebbero rappresentare un’ulteriore spina nel fianco del dollaro. Se è vero che la crisi del dollaro come moneta mondiale non è dietro l’angolo (dopo la crisi del 2008 il dollaro ha perso solo un paio di punti percentuali in termini di riserve mondiali), è anche vero che dentro la competizione internazionale si gioca anche questa partita e l’esito questa volta non è scontato

* Fonte: Marco Bertorello, Danilo Corradi, il manifesto


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