Loujain Al Hathloul, silenzio sulla sorte dell’attivista saudita incarcerata

by redazione | 28 Agosto 2020 15:44

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Dieci settimane di silenzio. Loujain Al Hathloul, la più nota delle prigioniere di coscienza saudite, dal 9 giugno non ha più chiamato o fatto arrivare notizie alla famiglia. Si teme per le sue condizioni di salute e, sottolineano i parenti, che abbia subito abusi e torture in carcere. Attivista per i diritti delle donne, protagonista della campagna per il diritto alla guida e per l’abolizione del tutore maschile, Al Hathloul venne arrestata il 15 maggio 2018 nel corso di una retata che ha visto finire in prigione decine attiviste. In quei giorni la stampa occidentale, inclusa quella italiana, esaltava il passo fatto dal “modernizzatore” Mohammed bin Salman (noto come Mbs), il principe ereditario – di fatto già alla testa del regno – di permettere finalmente la guida alle donne. E invece, nello stesso momento, il rampollo reale ordinava l’arresto di protagoniste storiche della lotta per i diritti delle donne. Loujain Al-Hathloul ha denunciato di aver subito anche violenza sessuale in carcere.

La pandemia ha fornito un’altra occasione per oscurare la questione dei diritti umani in Arabia saudita. Anche la principessa Basmah bint Saud non ha contattato la famiglia da aprile, quando la sua detenzione è stata resa pubblica. E Salman Al Odah, un religioso incarcerato nel 2017, ha fatto la sua ultima chiamata a casa il 12 maggio. Ai prigionieri di coscienza era permesso di telefonare a casa almeno una volta a settimana. Da quando c’è l’emergenza Covid è calato il silenzio su di loro e si teme che siano ammalati se non addirittura deceduti a causa del virus e che le autorità lo stiano nascondendo. Intanto diversi intellettuali e scrittori arrestati lo scorso anno – due hanno la doppia cittadinanza saudita e statunitense, Salah Al Haidar e Bader Al Ibrahim – sono stati rinviati a giudizio e dovranno affrontare un processo in un tribunale speciale per l’antiterrorismo. A inizio agosto un ex ufficiale dell’intelligence Saad al Jabri, fuggito in Canada, ha riferito di essere scampato nel 2018 a un team di killer inviato da Mbs ad ucciderlo.

La morsa della repressione si stringe sempre di più in Arabia saudita. L’account Twitter “Prisoners of Conscience” nei giorni scorsi ha scritto che arresti e intimidazioni sono diventati la regola per le famiglie degli oppositori in esilio. Cresce il timore di nuovi omicidi “mirati” all’estero, la sorte subita due anni fa dal giornalista Jamal Khashoggi, brutalmente assassinato e fatto a pezzi nel consolato saudita a Istanbul da agenti dei servizi segreti. Una eliminazione che più parti, anche la Cia, hanno attributo a un ordine dato a Mohammed bin Salman. Il principe ereditario però gode della protezione di Donald Trump e ignora le condanne dei centri per i diritti umani. La possibile vittoria alle presidenziali di Joe Biden potrebbe portare a un cambiamento se il candidato democratico metterà da parte la ragion di stato e confermerà – ben pochi ci credono – la condanna della repressione in Arabia saudita e i sanguinosi bombardamenti di Riyadh in Yemen.

* Fonte: Michele Giorgio, il manifesto[1]

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