Egitto. Bahey el-Din Hassan: «Contro di me un’escalation repressiva per impaurire chi resiste»

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Quindici anni di carcere per qualche tweet. È questa l’assurda condanna (in contumacia) che il 25 agosto ha colpito Bahey el-Din Hassan, cofondatore e direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies, tra le più antiche e prestigiose organizzazioni per i diritti umani del mondo arabo.

Una sentenza durissima, senza precedenti per una figura di primo piano come Hassan che nei suoi 50 anni di militanza ha attraversato quasi tutte le stagioni politiche dell’Egitto repubblicano, ma non aveva mai subito il livello di vessazioni degli ultimi anni.

«Si tratta di un’escalation – dice Hassan al manifesto – anche se va nella stessa direzione delle minacce di morte ricevute nel 2014, della sentenza che ha congelato i miei beni e quelli della nostra organizzazione, e della condanna a tre anni di pochi mesi fa con le stesse accuse di oggi».

Insulti alla magistratura e diffusione di notizie false sono i reati che avrebbe commesso, gli stessi usati praticamente contro tutti i dissidenti nell’Egitto di al-Sisi. Ad ‘incastrarlo’ i suoi post sui social media: «Mi ha colpito – osserva Hassan – che il primo dei tweet citati come prove nel fascicolo fosse quello in cui chiedevo giustizia per Regeni e per i cinque innocenti uccisi per insabbiare il suo omicidio».

Figlio del movimento studentesco del ’68 egiziano, dopo una lunga attività nel sindacato dei giornalisti, Hassan è stato tra i pionieri del movimento dei diritti umani nella regione, contribuendo alla formazione di numerose generazioni di attivisti. Da sei anni vive all’estero, dove continua instancabilmente il suo lavoro, da un lato facendo pressioni sui governi occidentali e dall’altro tentando di connettere e coordinare la vivace diaspora egiziana in Europa e in Nord America.

La condanna, oltre a mandare un messaggio diretto a lui, serve «a spaventare altri difensori dei diritti umani, soprattutto quelli che sono in Egitto», anche se oggi «il regime si sente più minacciato da chi è all’estero», spiega rispondendo alle nostre domande.

Non è un caso che negli ultimi tempi gli apparati di sicurezza abbiano preso di mira i parenti di alcuni attivisti in esilio, persone spesso totalmente slegate dalla politica. Appena un anno fa, a seguito di un’intervista a questo giornale, lo stesso Hassan era stato oggetto di una vasta campagna diffamatoria sulla stampa egiziana, che arrivava persino a chiederne la revoca della cittadinanza, accusandolo di essere una «spia» e un «agente straniero».

È sempre la retorica della lotta al terrorismo e della stabilità a giustificare le politiche del regime di al-Sisi, salito al potere nel luglio 2013 con un cruento colpo di stato contro gli islamisti.

Ma dietro gli slogan la realtà è un’altra. «Non vedo alcun nesso tra le misure draconiane in atto e la sicurezza – afferma Hassan, che è stato condannato proprio da una corte speciale anti-terrorismo – La gran parte delle vittime sono attivisti pacifici, giornalisti, personale sanitario e difensori dei diritti umani».

Nel nuovo autoritarismo del presidente al-Sisi l’apparato giudiziario gioca un ruolo chiave. «Se con Mubarak la magistratura era relativamente indipendente, oggi il suo scopo principale è garantire una copertura legale alla lampante repressione quotidiana dei cittadini». Senza alcun rimpianto per il vecchio dittatore rovesciato dalla rivolta popolare nel 2011, secondo Hassan »sotto Mubarak le linee rosse da non superare erano chiare. Ora nessuno sa quali siano queste linee rosse. Non c’è paragone, oggi la repressione è di gran lunga più forte».

E la crisi del Covid-19 anziché indebolire il regime sembra averlo consolidato: «Per al-Sisi l’epidemia è un’opportunità, non un rischio. Il presidente si è armato di ulteriori strumenti politici e legali per reprimere. Oggi abbiamo una nuova categoria di vittime: i medici che hanno criticato le politiche del ministero della sanità e la carenza di attrezzature».

E mentre la sanità pubblica vive di stenti, l’unico settore statale a non conoscere crisi è quello militare, che di anno in anno è sempre più foraggiato a colpi di massicci acquisti di armamenti da miliardi di dollari (il più recente e sostanzioso dei quali è rigorosamente Made in Italy).

«Questi accordi non hanno niente a che fare con la stabilità dell’Egitto e dell’area – commenta Hassan – Eppure gravano sul debito pubblico (già oltre 120 miliardi di dollari), peggiorando le condizioni del 30% di egiziani che vive in povertà». Il loro vero scopo? «Aiutano al-Sisi a soddisfare l’orgoglio dell’esercito di cui lui ha bisogno perché è il garante della sua permanenza al potere».

* Fonte: Pino Dragoni, il manifesto



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