Normalizzazione tra Israele e Bahrain: «Ha deciso il regime non il popolo»

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Maryam Al Khawaja

«Il nostro appoggio è sempre andato ai diritti del popolo palestinese, è inaccettabile che il regime (la monarchia, ndr) normalizzi le relazioni con Israele contro la volontà del popolo del Bahrain e con i palestinesi sotto occupazione. Questo accordo non è destinato in alcun modo a portare benefici al nostro popolo come qualcuno a Washington si affanna a sostenere». Maryam Al Khawaja, la più nota degli attivisti bahraniti dei diritti umani, impegnata nella battaglia per la riforma democratica della monarchia assoluta di re Hamad bin Isa Al Khalifa, condanna la normalizzazione dei rapporti tra il Bahrain e Israele annunciata dall’Amministrazione Trump due giorni fa. «Il popolo del Bahrain non è libero, il Bahrain non è un paese libero – ripete ai giornalisti che la intervistano -. Non abbiamo il diritto di esprimere la nostra opinione, tanti cittadini sono stati imprigionati e torturati solo per aver espresso la loro opinione. Questa normalizzazione è una decisione del governo e non la volontà del popolo del Bahrain».

Le considerazioni di Maryam al Khawaja sono largamente condivise sui social. Centinaia di bahraniti venerdì e ieri hanno criticato e respinto l’intesa tra Manama e Tel Aviv che segue la normalizzazione tra Israele ed Emirati annunciata un mese fa, sempre da Donald Trump, e che sarà messa nero su bianco il 15 settembre con una cerimonia alla Casa Bianca. Su Twitter hanno fatto tendenza gli hashtag #Bahrainis_Against_Normalization e   #Normalization_Is_Betrayal. È un clima ben diverso da quello che aveva accompagnato l’intesa tra Abu Dhabi e Tel Aviv, quando tanti emiratini avevano elogiato la decisione presa dal principe reggente Mohammed bin Zayed al Nayaf e avevano condannato, spesso con toni aggressivi, il

rifiuto palestinese della normalizzazione.La reazione contraria dell’Iran all’intesa tra Manana e Tel Aviv era attesa: «I governanti del Bahrein saranno d’ora in poi partner dei crimini del regime sionista (Israele, ndr)», è stato il commento ufficiale di Tehran. Così come quella dell’Autorità nazionale palestinese, che ha ritirato l’ambasciatore a Manama, e del movimento islamico Hamas che parlano di un’altra «pugnalata alle spalle» da parte di uno Stato arabo. Quella negativa di larga parte della popolazione bahranita è andata oltre ogni previsione. E si spiega anche all’interno del conflitto politico e sociale in Bahrain dove l’opposizione sciita e la società civile sono vittime da decenni di repressione e abusi. Repressione che si è intensificata nel 2011 durante la Primavera araba bahranita soffocata nel sangue a Piazza della Perla. In questi ultimi nove anni sono finiti in prigione leader politici di primo piano, tra i quali il socialista Ebrahim Sharif, e alcuni dei principali difensori dei diritti umani come Nabeel Rajab, condannato per alcuni tweet e post «sovversivi» sui social e scarcerato solo di recente.

La mobilitazione per la democrazia in Bahrain ha una lunga storia ma non ha prodotto risultati. Dopo il 2011 ai media, ai gruppi per i diritti umani e ai partiti dell’opposizione era stata concessa una limitata libertà di dissenso. Poi nel 2016 la monarchia denunciando un presunto tentativo dell’Iran di manovrare le proteste popolari in corso nel paese, ha messo fino a qualsiasi ipotesi di cambiamento e ha chiuso al Wasat, l’unico giornale indipendente. La scure del regime si è abbattuta su moderati e radicali e sono state eseguite anche condanne a morte di «terroristi». Le denunce ripetute di Amnesty, Hrw e i centri per i diritti umani regionali, non hanno prodotto risultati. Re Hamad resta saldamente al suo posto grazie anche all’alleanza che mantiene con gli Stati uniti e la Gran Bretagna – di cui ospita navi da guerra e basi militari – e ai legami con altri Stati sunniti, in particolare con l’Arabia Saudita e gli Emirati.

In risposta alla campagna sui social contro la normalizzazione, Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell’Olp, ieri ha ringraziato a nome dei palestinesi il popolo del Bahrain. Ma i dirigenti palestinesi devono fare mea culpa. In questi anni hanno privilegiato i rapporti con i ricchi re e principi del Golfo, per garantirsi generosi finanziamenti all’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen, e hanno chiuso gli occhi di fronte alle lotte portate avanti dalle popolazioni di quei regni, a cominciare dal Bahrain. La politologa palestinese

Diana Buttu

Diana Buttu invita a un profondo ripensamento del tipo di rapporti instaurati nel corso degli anni con gli Stati arabi. «Occorre privilegiare i rapporti con i popoli e le società civili» ci dice «e si dovranno indire elezioni per il rilancio dell’Olp, in modo da permettere ai palestinesi, dentro e fuori (i Territori occupati), di decidere il destino dell’Anp e le strategie politiche da seguire per conquistare la libertà e mettere fine all’occupazione militare israeliana»

 

* Fonte: Michele Giorgio, il manifesto

 

Foto di Bruce Emmerling da Pixabay



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