Morti in carcere: quando lo Stato indaga su se stesso, secondo la CEDU

by redazione | 21 Ottobre 2020 11:01

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Quando una indagine sulla morte di una persona detenuta si può dire una “indagine giusta”? Quando lo “stato che indaga su se stesso” lo fa in maniera tempestiva, accurata, trasparente, imparziale, in un tempo ragionevole e in modo tale da coinvolgere i famigliari della vittima? I corsivi non sono una nostra enfasi redazionale o l’invocazione, nuovamente, di una giustizia giusta per le 13 morti di marzo. Sono, invece, i criteri dettati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) rispetto a casi di morte di persone custodite dallo stato, in cui lo stato stesso sia sotto accusa. L’articolo che segue, a cura di Emanuele Ficara, avvocato di StraLi, riguarda un caso di morte in cella per presunto arresto cardiaco, su cui la Corte dovrà esprimersi, soprattutto in merito alla correttezza dell’indagine svolta attorno a presunte responsabilità istituzionali. Un articolo che consigliamo di leggere con attenzione, perché se parliamo di tempi, trasparenza, imparzialità e quant’altro, delle indagini in corso sui detenuti morti nello scorso marzo, scopriamo che la CEDU ha molto da dire alle istituzioni italiane e qualche appiglio da dare agli avvocati.

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Gli avvocati Chiara Luciani e Nicolò Bussolati dello Studio Lexchanche di Torino si sono rivolti all’Associazione StraLi (for strategic litigation) sottoponendo un caso che riguarda la morte per un presumibile arresto cardiaco di un detenuto in carcere già ritenuto – in almeno due occasioni – incompatibile con il regime carcerario.

In ordine ai fatti di causa, la Procura della Repubblica effettuava unicamente una consulenza tecnica autoptica. Non venivano svolti accertamenti, audizioni testimoniali o acquisizione documentale particolare, e non veniva iscritto alcun indagato nel registro delle notizie di reato. Ciononostante, veniva formulata richiesta di archiviazione del procedimento, in quanto le cause della morte del detenuto venivano ritenute «poco prevedibili» e comunque «non prevenibili». La decisione di richiedere l’archiviazione del procedimento veniva notificata alla famiglia della vittima solo dopo circa tre anni dalla morte del detenuto.

Tali circostanze, debitamente denunciate dagli avvocati Luciani e Bussolati in sede giudiziaria, hanno permesso al team penale di StraLi, incaricato dagli avvocati, di individuare un particolare profilo di interesse “strategico” nella vicenda.

L’importanza e la strategicità del caso identificata dall’associazione (nei termini di potenziale impatto che una pronuncia delle Corti Superiori e sovranazionali sul caso potrebbe avere per elevare gli standard di tutela interni) riguarda principalmente il difetto di indagini accurate sull’accertamento delle responsabilità eventualmente individuabili nel caso.

Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si sostiene infatti che, considerato il suo carattere fondamentale, l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (diritto alla vita) va interpretato nel senso che lo Stato deve garantire in primis (ex ante) la tutela della vita delle persone detenute, ed ex post (quando lo Stato “indaga su se stesso”) garantire che l’accertamento delle responsabilità sia efficace, tempestivo ed approfondito.

In particolare, la Corte ha negli anni avuto modo di enucleare precisi standard da rispettare nel corso delle indagini per l’accertamento delle cause della morte in ambito carcerario, partendo dall’assunto di una sussistenza di un rischio di “superficialità” degli accertamenti quando a essere indagati sono gli apparati statali stessi.

Sono, difatti, numerose le sentenze che riconoscono la responsabilità dello Stato per non aver compiuto indagini approfondite sulle responsabilità per le morti in carcere.

Più nello specifico, secondo la Corte EDU l’indagine sulle cause di una morte, per garantire un sufficiente standard di tutela dei summenzionati diritti, devono essere: a) avviate ex officio; b) tempestive e che si concludano prima dell’intervento della prescrizione; c) approfondite ed effettive; d) improntate a diligenza; e) idonee a identificare e punire i colpevoli; f) improntate a trasparenza; g) tali da consentire la partecipazione della vittima del reato o dei suoi familiari nelle indagini; h) tali da concludersi in un tempo ragionevole; i) svolte da un’autorità indipendente e imparziale rispetto a quella cui afferiscono i soggetti coinvolti e sottoposta a controllo pubblico.

Il livello di dettaglio con il quale la Corte analizza le indagini interne degli stati firmatari e identifica i criteri minimi da rispettare è assolutamente indicativo della delicatezza del tema posto. Addirittura, la Corte identifica le prove minime da acquisire (testimonianze anche indirette, perizie medico-legali comprensive di un’autopsia che fornisca un resoconto completo e preciso delle lesioni e di un’analisi obiettiva dei risultati clinici), la durata massima che dovrebbero avere le indagini per essere considerate effettive, il grado di trasparenza delle indagini e informazione alle parti private.

Insomma, a livello sovranazionale si può riscontrare un vero e proprio “vademecum” per le Procure della Repubblica da rispettare nello svolgimento delle indagini.

Uno dei pochi casi, sicuramente l’unico pubblicato, in cui la Corte EDU si è pronunciata sul tema con riferimento ad un ricorso contro lo Stato italiano è il caso della morte di Carlo Giuliani nel corso delle manifestazioni del G8 di Genova, trattato nel 2011 dalla Corte. In quel caso i Giudici avevano deciso (con 10 voti favorevoli e 7 contrari) che non vi era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione, fornendo tuttavia importanti precisazioni sul necessario rispetto del principio di effettività delle indagini sulle cause della morte.

Nella copiosità di sentenza in tema, ma con specifico riferimento al caso in esame, due particolari pronunce appaiono di maggior interesse, proprio perché si concentrano su casi assolutamente assimilabili.

Nella Sentenza 7 febbraio 2019, Patsaki e altri c. Grecia, la Corte ha affrontato il caso di un soggetto detenuto morto in carcere per un ipotetico difetto di cure adeguate. La Corte ha qui rilevato la violazione dell’art. 2 CEDU per l’eccessiva durata delle indagini condotte dalle autorità greche sulla morte della vittima – addirittura 4 anni e 8 mesi – nonché per il fatto che, ancora più nello specifico, nel corso delle indagini non venivano raccolte informazioni dai compagni di cella della vittima e l’indagine condotta nei confronti della direttrice del carcere era stata chiusa senza particolari accertamenti e senza alcuna motivazione.

Anche il caso di cui alla sentenza del 21 febbraio 2019, Mammadov e altri c. Azerbaigian, risulta particolarmente interessante. La Corte ha qui riconosciuto la medesima violazione dell’articolo 2, in quanto le autorità statali non avevano condotto un’indagine sufficientemente approfondita sulle cause della morte di un detenuto, e, in particolare, avevano omesso di considerare l’influenza che il ritardato trasferimento in ospedale ha avuto sul decesso, e di informare correttamente la moglie e il figlio della vittima dello sviluppo delle indagini e informate del loro esito.

Si nota dunque in tali pronunce l’estrema attenzione della Corte sovranazionale sul tema, tale quasi da assumere di fatto, in alcuni casi, un ruolo assimilabile a un Giudice per le indagini preliminari.

Nel caso sottoposto all’attenzione dell’Associazione, la prosecuzione delle indagini nel senso specificamente indicato nell’atto di opposizione formulato dagli Avvocati Luciani e Bussolati appare dunque l’unica strada percorribile al fine di rispettare sotto il profilo procedurale il disposto di cui all’art. 2 CEDU.

In un caso delicato come quello in esame, e in ogni altro caso di morte in carcere in circostanze non evidenti, l’operatore del diritto (in particolare gli organi inquirenti) dovrebbe dunque ampliare il proprio angolo visuale verso il diritto sovranazionale ove, come visto, sono contenuti in maniera alquanto approfondita i “canoni dell’indagine giusta”.

Tali canoni – da ritenersi ovviamente totalmente condivisibili – rischiano però di rimanere una litania inascoltata senza un effettivo ricorso alle Corti Sovranazionali da parte di tutti gli operatori del diritto (come visto, per quanto riguarda l’Italia si riscontra una sola pronuncia sul punto).

Nel caso di specie, un eventuale ricorso alla Corte EDU supportato da StraLi mirerebbe infatti a implementare il livello di tutela interno italiano in rapporto agli standard sovranazionali, uno degli obiettivi propri della strategic litigation in un sistema come quello europeo.

 

* Avvocato, responsabile del dipartimento di diritto penale di StraLi

 

ph by Adrian Grycuk, CC BY-SA 3.0 PL <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/pl/deed.en>, via Wikimedia Commons

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