Decreti sicurezza. Una riforma insufficiente contro il razzismo sistemico

by redazione | 23 Dicembre 2020 15:51

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La riforma dei Decreti Sicurezza segna alcuni timidi passi in avanti. Tuttavia, per far fronte al razzismo odierno – che si manifesta tanto nel discorso pubblico, quanto nella pratica istituzionale – servirebbe molto di più.

Forse sarebbe stato troppo ambizioso (ma soprattutto ingenuo) aspettarsi che questa condizione cambiasse sotto lo stesso premier che ha condotto il governo più a destra della storia del paese. Così come poco c’era da aspettarsi da un partito nazional-populista come il M5S e da un centro-sinistra che da venticinque anni fa politiche sostanzialmente uguali a quelle della destra, di cui condivide lo spirito securitario ma ne attenua la retorica.

L’ultima riforma dei Decreti sicurezza, pur se con qualche luce, rientra all’interno della lunga tradizione di leggi securitarie e repressive che hanno disciplinato le migrazioni. Come specificato da Lamorgese, la «sicurezza» rimane il contraltare con cui bilanciare le timide aperture su alcuni fronti. Infatti, Luigi Manconi e Federica Resta hanno qualificato la normativa italiana sull’immigrazione come un diritto asimmetrico e deformalizzato e, in relazione ai Decreti Minniti-Orlando – che l’attuale riforma non mette in discussione -, hanno parlato di un diritto etnico, “minore”.

Con la riforma, rispetto ai Decreti di Salvini, non scompaiono le sanzioni alle Ong – che diventano penali e non più amministrative – e aumenta la criminalizzazione di chi si ribella nei Cpr. Il Daspo urbano per selezionare e disciplinare la popolazione viene rafforzato. Rimangono le procedure accelerate di valutazione delle domande d’asilo, secondo l’approccio hotspot proposto dal Patto sull’immigrazione e l’asilo.

Così come rimane la norma sulla revocabilità della cittadinanza. Si accorciano “in compenso” i tempi per il rilascio della cittadinanza che però sono comunque più lunghi di quanto lo fossero prima della riforma di Salvini. L’aspetto più importante forse consiste nell’introduzione della protezione speciale e nell’ampliamento dei casi di inespellibilità, che riguarderà chi abbia una vita consolidata nel paese così come chi rischi trattamenti inumani.

Inoltre, sarà possibile convertire la protezione speciale, insieme ad altri permessi temporanei, in un permesso per lavoro. È stato inoltre tolto il tetto massimo alle quote del decreto flussi sugli ingressi per motivi di lavoro. Viene ripristinata l’accoglienza per i richiedenti asilo, nonché l’iscrizione anagrafica – che però viene subordinata al volere degli operatori dell’accoglienza.

In definitiva, questa riforma, pur introducendo alcune norme positive, non interviene sul razzismo strutturale. Le milizie e le forze di sicurezza libiche continuano a venire pagate per trattenere parte della popolazione “in eccesso” a distanza.

Chi arriva in Italia via mare – su navi spesso tenute fuori dai porti anche sotto il governo Conte II -, con il pretesto della pandemia, continuerà a venir rinchiuso in navi-lazzaretto, per poi esser messo nei Cpr senza poter fare domanda d’asilo, pronto per l’espulsione. I confini della “Fortezza Europa” sono porosi e le persone non smetteranno di attraversarli ma l’accesso deve rimanere pericoloso e la detenzione e il rischio di venir deportati, devono continuare a segnare l’esperienza di chi accede allo spazio europeo.

L’esclusione dai diritti fondamentali, per via legale o de facto da parte della amministrazione o della polizia, dei non-cittadini rimane. D’altronde, la cittadinanza nazionale istituisce una discriminazione legale, che può esser radicalizzata – dietro alla apparente naturalità della differenza nazionale – per via normativa e amministrativa.

In quello che sempre più si configura come un apartheid europeo – come lo hanno chiamato Étienne Balibar e Sandro Mezzadra – le discriminazioni e la retorica dello scontro di civiltà non servono tanto ad impedire l’ingresso dei migranti, quanto piuttosto ad inserirli in una posizione subalterna nelle società europee. Non a caso, anche dopo questa riforma, a resistere è il nesso tra politiche migratorie, di sicurezza e del lavoro.

Si vuole, da un lato, produrre forza lavoro precaria e vulnerabile, espellibile all’occorrenza e regolarizzabile nelle emergenze – come con la parziale sanatoria di maggio. Dall’altro, si intende riprodurre un’identità nazionale altrimenti fragile e esposta alla sua contingenza.

A tal fine, si strumentalizza il rancore sociale attraverso la logica della priorità nazionale, utile al disciplinamento della società. C’è infine l’esigenza di tranquillizzare la popolazione nazionale sulla persistenza del potere sovrano a fronte dei fenomeni di erosione e trasformazione dello stesso.
Si crea così un circuito di reciproca legittimazione tra illegalizzazione, discriminazioni a mezzo di legge e violenza nella società. Per interrompere questa spirale servirebbe una politica dell’eguaglianza radicale, ma si preferisce mantenere lo status quo.

* Fonte: Bruno Montesano, il manifesto[1]

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