E Brexit sia: da mezzanotte il Regno unito dice addio all’Unione europea

E Brexit sia: da mezzanotte il Regno unito dice addio all’Unione europea

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LONDRA. «This is the end, my only friend», cantava un oscuro rocker ormai troppi anni fa. Dopo infinite proroghe eccola: arriva a mezzanotte di stasera (le 11 Gmt). Sul passaporto (blu!) c’è scritto Brexit. Boris Johnson ha ratificato l’accordo commerciale fra Uk e Eu concluso a tempo quasi scaduto. I Comuni l’hanno votato con una maggioranza bulgara (!) di 521 voti a favore e 73 contro. Intero, come un pitone inghiotte l’enorme preda. E in quattro misere orette: circa 1500 pagine negoziate in undici mesi e frutto degli alti e bassi di un matrimonio di convenienza durato oltre mezzo secolo. Ma inghiottire e facile, è digerire che è difficile.

Gli euroscettici schiumanti dell’Erg, dopo il parere di un team legale, hanno dato il via libera. Gli brucia l’assetto nordirlandese – ricordate il backstop? – che continua a mutilare la loro vittoria e borbottano per le concessioni fatte sul pescato, ma per il resto gongolano per essere passati nello spazio di un decennio o poco più da filodrammatica di mezzi rincoglioniti a dominare il partito conservatore, che qui equivale a dire in buona sostanza il paese. Per la stessa ragione «irredentistica» dell’Irlanda del Nord, il Dup, vecchio alleato a pagamento del governo May, ha votato contro, come anche, meno sorprendentemente, lo Scottish National Party. Il tecnocratico Starmer, l’uomo su cui punta la restaurazione neoliberale europeista in tandem con Joe Biden, ha rispolverato la retorica patriottarda dell’interesse nazionale – che Corbyn aveva felicemente scansata – per coartare i suoi a votare l’accordo: lui, che ha fatto campagna per il remain e ha contribuito così a peggiorare la sconfitta alle politiche dell’anno scorso.

Non c’era molto da dibattere, lo sfinimento prevale da ambo le parti, fuori c’è un altro virus che imperversa che non è il nazionalismo. Con il precipitare della situazione sanitaria delle ultime settimane, la chiusura di Dover aveva reciso l’arteria principale di traffico commerciale con il “continente”, riempendo l’aria di insularismo. Le prime pagine dei tabloid erano la solita cacofonia nazionalistica. Uscire dall’Ue sembra quasi naturale. Da domattina, i futuri migranti europei rientreranno nel sistema a punti di tipo australiano, che filtra i lavoratori in ingresso «in base all’età, alla competenza, alle qualifiche e all’esperienza».

Dietro la “sovranità” di cui tanto berciano gli orfanelli dell’impero dietro Johnson, sta il loro anelito verso quello che è già stato definito un Impero 2.0 e che loro opportunamente chiamano «global Britain»: una sfera di influenza di nuovo autonoma, più efficiente ed estesa di quella in seno all’Ue. Poco importa che nella stessa Ue il paese avesse fatto ingresso nel 1973 (con Ted Heath) da «malato d’Europa», dopo aver pazientato, proprio cercando di cicatrizzare il “vulnus” della decolonizzazione. Il tono ormai urticante della loro retorica – world-beating country, best country, scientific superpower – è lo stesso linguaggio che Johnson usava nei suoi famigerati, talvolta plagiati, dispacci quando era corrispondente del Telegraph da Bruxelles (lo stesso Telegraph che come anche lo Spectator – dove lavorano Dominic Cummings e signora – è stato diretto da Johnson, oltre che di proprietà dei fratelli Barclays. Così, tanto per).

In modi e tempi diversi, la depolarizzazione del mondo dopo il crollo del muro di Berlino, la crisi violenta che attraversa il capitalismo europeo e nordamericano si è fatalmente incrociata con l’ambizione di un uomo politico molto bravo a vendere. Boris Johnson, membro di un’ élite populista e in attesa del primo autobus verso Downing Street, è poi riuscito a salirvi evocando una sinistra forma di nazionalismo inglese che il suo partito aveva fino ad allora marginalizzato con successo.

L’industria culturale, i media mainstream, la Bbc sono a dire il vero ormai da anni impegnati nel prelavaggio in chiave nazionale/ista di qualsiasi evento o personaggio storico, pescando a strascico nell’inesauribile songbook della gloria nazionale. La psiche sta adeguandosi alla lunga risacca antieuropeista da un pezzo ormai. E qualcosa si è definitivamente rotto a livello emotivo: ma non solo nei liberal che bagnano di lacrime le proprie tastiere per la grettezza di tutto questo, perfino nei brexittieri, nonostante la loro arrogante sicumera. Di certo il loro impegno nei confronti dell’Unione, ormai al trotto verso lo status di ex. Con una Nicola Sturgeon che – contrariamente a Johnson – nei sondaggi è schizzata ad un empireo dal quale scenderà in picchiata solo per ghermire a sua volta l’indipendenza scozzese, questione di tempo. La Gran Bretagna è stata l’invenzione con cui una nazione egemone ha giustificato il proprio dominio delle altre tre nel nome di quello comune, imperiale ed extraeuropeo. Quest’Inghilterra bianca e soprattutto middle class che si allontana dall’Europa via Brexit ne sta dimostrando l’obsolescenza.

* Fonte: Leonardo Clausi, il manifesto



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