Francia. Condannati i complici per la strage a Charlie Hebdo

by Anna Maria Merlo * | 17 Dicembre 2020 9:24

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PARIGI. Dopo quasi quattro mesi di processo con 14 imputati (di cui solo 11 presenti) alla corte d’assise speciale di Parigi, 54 giorni di udienze e una sospensione a causa del Covid, ieri nel tardo pomeriggio è arrivata la sentenza per gli attentati del gennaio 2015, che hanno colpito Charlie Hebdo, l’HyperCacher della Porte de Vincennes e a Montrouge. 17 morti complessivamente, la redazione del settimanale satirico decimata, dei clienti del supermercato assassinati, una poliziotta colpita a morte. Le condanne vanno da 4 anni all’ergastolo, per 6 imputati su 11 è stato scartato il movente terrorista.

Il principale imputato, Ali Reza Polat, prende l’ergastolo (e farà appello), mentre la maggior parte delle sentenze sono inferiori a quanto richiesto dai magistrati. Condanne anche per gli assenti, in particolare Hayat Boumeddiene, sposa religiosa di Amady Coulibaly, il terrorista dell’HyperCacher, che è in fuga, probabilmente in Siria: è stata condannata a 30 anni.

«Il ciclo della violenza che si era aperto circa 6 anni fa nella sede di Charlie Hebdo si è finalmente chiuso almeno sul piano penale, poiché, umanamente, le ripercussioni non si cancelleranno mai», ha scritto Riss, direttore del settimanale satirico. Nell’edizione di Charlie Hebdo ieri in edicola, una vignetta: «Dio è stato rimesso al suo posto».

Sul banco degli accusati di questo processo considerato storico (e eccezionalmente filmato per lasciare una traccia per il futuro) non c’erano i principali responsabili, i fratelli Saïd e Cherif Kouachi e Amady Coulibaly, i terroristi di Charlie Hebdo e dell’HyperCacher, uccisi in scontri con la polizia nel gennaio 2015, ma solo delle figure più o meno di secondo piano, che hanno fornito la «logistica» degli attentati.

L’avvocato Richard Malka, che difende le vittime di Charlie Hebdo, afferma che è stato il processo di una «nebulosa»: «il più importante messaggio della società francese è il processo di una nebulosa», di persone «più o meno vicine al terrorismo». Per Malka, la cosa più importate su cui la società deve riflettere è che «la sentenza dice che senza la nebulosa non c’è terrorismo». Il principale imputato, Ali Reza Polat, condannato all’ergastolo, è stato giudicato responsabile di «complicità», di aver avuto un «ruolo attivo e trasversale» e aver permesso, fornendo armi, informazioni e aiuto, l’attentato di Coulibaly.

Il processo è stato massacrante per le vittime scampate al massacro e per i famigliari degli assassinati. C’erano più di 200 parti civili. La difesa ha cercato di mettere sotto scacco l’accusa, «non si possono giudicare i morti, allora hanno trovato dei vivi», è stata l’arringa di un difensore.

L’accusa ha respinto questo sospetto: «è fuori questione far pagare ai vivi le colpe dei morti». Per questo, le condanne sono in gran parte inferiori a quelle richieste dall’accusa. La sentenza è stata generalmente accolta come «equilibrata». Giudicare il terrorismo resta un’operazione di estrema difficoltà, tra emozione delle vittime e elementi di prova.

La sentenza arriva in un momento molto delicato in Francia, di nuovo colpita da attentati, la decapitazione del professore Samuel Paty, l’attentato di Nizza. Inoltre, il 9 dicembre è stato presentato in Consiglio dei ministri il testo di una legge sul «rafforzamento dei valori della Repubblica», che in una prima versione era stata battezzata «legge contro i separatismi».

La polemica infuria su possibili amalgami tra una religione e le derive islamiste. La destra attacca perché vorrebbe una mano più ferma, la sinistra chiede maggiori interventi sociali, per prevenire. La società francese si spacca sul terrorismo e la sinistra, in particolare, al suo interno con schieramenti sempre più incompatibili.

C’è la questione della libertà di espressione, rappresentata da Charlie Hebdo e la difesa del diritto alla blasfemia, un valore importante per la cultura francese, come ha sottolineato Emmanuel Macron nel discorso alla Sorbonne per la cerimonia in onore del professor Paty. C’è una parte della sinistra che si interroga su un approccio troppo «laicista», accusato di nascondersi dietro questo concetto più che centenario per attaccare una religione, quella della classe sfavorita di oggi (a loro volta sospettati di «islamogauchisme»).

* Fonte: Anna Maria Merlo, il manifesto[1]

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