Il direttore. I quarant’anni in carcere di Luigi Pagano
Luigi Pagano, a lungo capo del penitenziario milanese di San Vittore, affida al libro “Il direttore” (Zolfo Editore) il racconto di quarant’anni di lavoro in carcere
Un viaggio umano e professionale che si intreccia con i momenti chiave della storia italiana
Si intitola semplicemente “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere”, ma potrebbe chiamarsi “Autobiografia di un carceriere”, oppure “Delitti e castighi” o “Memorie dal sottosuolo”, quello che non si vede o non si vuole vedere. È il libro scritto da Luigi Pagano, per 16 anni al timone della casa circondariale milanese di San Vittore, poi a capo di tutti i penitenziari del Nord-ovest e numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
In 304 pagine, nella pubblicazione di Zolfo Editore racconta 40 anni da “sbirro” e insieme riformatore e scorci di “vita offesa” dei “sommersi” del carcere. Spiega la fatica di conciliare le regole con la capacità di comprendere e l’empatia, unite alla volontà di cambiare le cose e ridurre la distanza tra i princìpi sanciti dalla Costituzione e la realtà delle patrie galere.
Con la sentenza Torregiani, si ricorda, la Corte europea dei diritti umani nel 2013 condannò l’Italia per il trattamento inumano e degradante inflitto alle persone ristrette, mettendo sotto accusa l’intero sistema penitenziario. Non era la prima volta, già nel 2009 la Cedu ci aveva censurato.
Il carcere oggi in Italia: i dati del sovraffollamento
I carcerati positivi al nuovo coronavirus censiti al 28 novembre dall’ufficio del Garante nazionale private della libertà sono 882, stipati in 86 istituti, un numero in continuo aggiornamento. I morti per il contagio sono almeno 14 per l’associazione Ristretti Orizzonti (aggiornamento al 13 dicembre 2020).
Per “il direttore” la pena detentiva è il «riconoscimento della sconfitta»
Secondo Luigi Pagano – che il libro lo ha scritto prima dell’emergenza sanitaria – il carcere andrebbe gradualmente ridimensionato e sostituito da misure alternative, se non addirittura abolito. «Quello del chiudere del tutto il carcere – precisa – è un discorso iperbolico, certo. Una provocazione. Ma nel frattempo non c’è alcun alibi per non fare. Quindi bisogna lavorare per riformare, sempre pensando che si debba ridurre l’incidenza della detenzione nel sistema penale. Occorre fare a meno del carcere ogni qual volta sappiamo che non serve, ma anzi sia deleterio».
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